C’è un momento, quando sei sotto la pioggia battente, con un ombrello sgangherato a proteggerti dall’acqua, c’è un momento in cui le goccioline riescono a insinuarsi sotto il tetto protettivo, qualunque sforzo tu faccia. È il momento in cui capisci che, malgrado le precauzioni, tornerai a casa fradicio, zuppo. È il momento in cui la pioggia inizia a schizzarti addosso come se volesse insozzarti, cancellare ogni macchia di purezza. Ti assale, non puoi scacciarla via. È il momento, in altre parole, in cui ti accorgi che tutto è compromesso. Irrimediabilmente compromesso. E non c’è nulla che tu possa fare per evitare di bagnarti. In Ozark, un momento così lo hanno chiamato “One Way Out“, una via d’uscita. Ma uscita da dove? E soprattutto, per andare in quale direzione?
Marty Byrde non voleva altro che una famiglia normale, cui offrire una vita normale. Regolare, ordinaria, forse persino noiosa. Una vita col cielo sereno. Invece l’ha trascinata in una tempesta dalla quale è difficile riemergere. I primi schizzi di pioggia non li ha neanche avvertiti. Venivano giù fiacchi, annoiati. Si afflosciavano sul grande ombrello aperto a protezione, non impensierivano e non infastidivano. Poi però, nuvole nere si sono addensate sul cammino dei Byrde. Grumi di cielo minacciosi, le prime avvisaglie di una tremenda burrasca.
Ozark è un grosso pantano in cui affossare le speranze di una vita migliore.
Provi a spolparla, a spremerla fino all’osso in cerca di un’opportunità, ma quello che ti torna indietro è solo melma, una poltiglia appiccicosa. Marty e Wendy devono trascinare l’intera famiglia fuori da quel lurido acquitrino. E per farlo, sono costretti a scendere a compromessi con la propria coscienza. La licenza per il casinò sembra essere l’unica via d’uscita percorribile. Wendy rispolvera le sue doti politiche per intavolare trattative con l’alta società del posto. Marty deve districarsi tra l’FBI alle calcagna, Ruth che ha tentato di ucciderlo, la mafia di Kansas City, le pressioni del cartello e l’ostinazione degli Snell, soci con i quali trattare è complicato oltre che estremamente pericoloso. La strada per aprire il casinò è tutta in salita, ma va percorsa fino in fondo perché è l’unica che consentirà alla famiglia Byrde di saldare il proprio debito e ricominciare una nuova vita.
Il problema è che quando ci si insozza le mani, poi è difficile lavare via lo sporco.
E Marty ne è consapevole. L’ebbrezza del crimine non gli dà alla testa, non lo eccita. Era solo un modo per assicurarsi stabilità e sicurezza, lontano dal sangue e dagli spari, facendo semplicemente il contabile. Un grigio e noioso contabile. Ma il malaffare sa insinuarsi negli interstizi delle più lodevoli buone intenzioni e sbaragliare tutto, scompigliare ogni piano. È seguendo questa via che si è ritrovato impantanato fino alla gola in un affare troppo grosso, impossibile da gestire e sorreggere anche per chi ha spalle larghe come le sue. Marty ha visto morire persone, anche amici. Ha visto il sangue scorrere, ristagnarsi sull’asfalto. Ha visto il suo grigio ufficio di contabile trasformarsi in una polveriera. Tutto costantemente e pericolosamente appeso a un filo. A un sottilissimo filo.
Quando qualcuno rapisce sua moglie, Marty capisce di essere giunto a un punto di non ritorno. Minaccia gli Snell con la ferma determinazione di chi è disposto a tutto pur di mettere in salvo le persone care. Dare fuoco a un’intera piantagione di papaveri potrebbe essere niente rispetto a ciò che la situazione esige. Marty si mantiene lucido, razionale. Ma sa perfettamente che sta per oltrepassare un limite, un confine al di là del quale ad aspettarlo potrebbe esserci una persona nuova, diversa, ammaccata. La chiamata di Mason gli dà qualche speranza. Riportare a casa il piccolo Zeke non sembra facile, ma lui può riuscirci e si mette subito in moto per farlo. Parla con le persone giuste, mente spudoratamente, agisce contro ogni morale, ma alla fine riesce ad ottenere la contropartita richiesta da Mason per salvare Wendy.
È curioso come uno tra i momenti più intensi di Ozark si consumi nel chiuso di uno scantinato. Con un bambino che piange sul pavimento, un prete che impugna una pistola e due – apparentemente – brave persone che cercano la loro via di fuga. È il pantano di Ozark che riesce ad allagare la visuale. Quando Mason, in preda alla rabbia e a una specie di delirio religioso, afferra Wendy per il collo minacciandola con un’arma improvvisata, a Marty non resta che un’unica cosa da fare. La più sbagliata, la più efficace. Non ha neanche il tempo di pensarci, lo fa e basta. Perché nel subconscio la scelta di premere il grilletto è già maturata. Arriva alle dita senza neppure passare per un percorso di razionalità. Non c’è tempo, la tensione è tanta, la soluzione non può che essere quella.
Marty spara. E uccide.
E qui qualcosa si rompe. La pioggia si insinua oltre il riparo offerto dall’ombrello. La proiezione dell’archetipo della brava persona si affloscia su se stesso. Andato, sgretolato, finito in frantumi. Marty si è inzuppato, si è compromesso. Irrimediabilmente compromesso. La domanda che ha galleggiato sulle profonde acque di Ozark sin dall’inizio, si ripropone qui con prepotenza: è sufficiente, per pulirsi la coscienza, raccontarsi che il male sia in realtà solo un mezzo attraverso cui raggiungere il bene? Il classico fine che giustifica i mezzi, che dà una spruzzata superficiale al senso etico. E però, davanti a un morto innocente che sanguina sul pavimento, nessuna giustificazione può stare in piedi. Marty ha superato il limite, è diventato come loro.
Sarà per questo che gli prende il panico. Che suda, sente il petto disintegrarsi un pezzo per volta. Si accascia a terra prostrato, con le mani sporche di sangue. Perduto. In quel momento, Marty ha capito di essere uno di loro. La maschera del brav’uomo che cerca di tirare la famiglia fuori dai guai, non regge più. Si sgretola, lasciando davanti allo specchio il volto di un individuo che si è sporcato le mani fino in fondo. Non c’è più alcuna differenza tra sé e il mondo lurido dal quale vuole venir fuori. È precipitato nel pantano, giù in fondo, da dove risalire sembra impossibile.
Era questa la via d’uscita? Ne esiste un’altra? The best way out is always through, diceva il poeta Robert Frost. La migliore via d’uscita è sempre attraverso.
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