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Ozark – La Recensione finale di una delle migliori Serie Tv dell’ultimo decennio

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ATTENZIONE: l’articolo potrebbe contenere spoiler sull’ultima stagione di Ozark.

Una volta, c’era un’unica via dritta per tornare a casa. Una sola striscia di bitume scuro da percorrere con la regolarità uggiosa di un pendolare che fluttua da un punto a un altro della propria esistenza, scartando gli imprevisti e mimetizzandosi nella chiazza incolore che brama solo certezze e sicurezza. Non era il tragitto più esaltante da consumare per rintanarsi nel microcosmo rassicurante delle proprie case, ma almeno dava la garanzia di arrivarci sani e salvi, tutte le sere. Poi, un giorno, qualcuno scelse di tagliare per strade più defilate, meno calpestate, deviando dal normale percorso e aprendosi un varco verso misteriosi e abbaglianti luccicori, ben visibili appena dietro l’angolo. Quell’unica via dritta che conduceva al vialetto di casa prese ad avvolgersi su se stessa, attorcigliandosi e contorcendosi lungo sporgenze e linee spezzate. La retta che allineava due punti distanti – la partenza e l’arrivo, l’inizio e la fine, la famiglia e il lavoro – si sfilacciò in un dedalo di strisce defilate, imbottigliando i pendolari in una spirale intricata di cui diventava sempre più difficile individuare l’asse centrale, il punto nodale.

Si resta accerchiati, bloccati nell’ingorgo.

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Il bitume diventa fango, poltiglia appiccicosa. Le strade si incamminano nel cuore selvatico di un’America sporca e contraddittoria, si perdono nel sottobosco di sentimenti egoistici e animaleschi. Le acque del lago riflettono la facciata, ma in quegli abissi, in quelle profondità, sono inabissati impulsi e passioni nascoste, primitive. La favola nera dei Byrde si chiude in una notte crudele e scura, mitigata come sempre dal luccichio morbido delle serate di gala, quelle con lo champagne e i vestiti scintillanti che rapiscono l’occhio e gli fanno vedere solo quello che può essere visto. Il resto si consuma altrove, la vita si schianta contro argini nascosti, nell’ombra, solitaria. Se Breaking Bad ci ricorda il deserto, Ozark resterà per sempre il lago, anche se in quest’ultima carrellata di episodi lo abbiamo visto ben poco rispetto al passato. Il lago è sempre stata la grande allegoria di questa serie, un viluppo mentale nel quale ciascun personaggio resta risucchiato. Le acque piatte di Ozark sembrano riflettere l’imperturbabilità e la distensione di un paesaggio irregolare e umile, essenziale e modesto. Ma l’apparente tranquillità tradisce sommovimenti burrascosi che lasciano precipitare tutto sul fondo. Seppellito, nascosto, dimenticato.

I primi sette episodi della quarta stagione di Ozark erano andati in onda su Netflix a fine gennaio. Tre mesi dopo, è arrivata anche la seconda parte, disponibile da ieri sulla piattaforma.

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La famiglia Byrde stava cercando una via d’uscita dall’intricatissimo rapporto con Omar Navarro e il cartello messicano della droga. Ruth gridava vendetta per la morte di suo cugino Wyatt e la rovinosa piega che stava prendendo la propria esistenza. Jonah e Charlotte si muovevano sempre più a disagio in un contesto familiare malato e totalmente disfunzionale, Darlene Snell era stata freddata da un colpo di pistola e cancellata per sempre e il giovane Javi Elizondo provava a prendere in mano l’impero dello zio. Ozark 4 – Parte II ricomincia esattamente da qui, attorcigliando ancor di più i fili, nell’evidente tentativo di far comprendere al pubblico che non esistono soluzioni semplici per questioni complesse. Per salvare la baracca, Marty e Wendy sono costretti ad esplorare ancora una volta i fondali più neri delle loro coscienze, raschiandole fino in fondo, conducendole a un punto di non ritorno. È proprio questa la domanda che si pone lo spettatore guardando gli ultimi episodi della serie creata da Bill Dubuque e Mark Williams: riusciranno i Byrde a ritrovare la retta via? Il finale di Ozark sarà il trionfo della redenzione, la catarsi definitiva o il crollo risolutivo?

Il bello di questa serie, che si mantiene sempre in equilibrio sul filo del compromesso, è che non fa nulla per compiacere il pubblico, ma cerca al contrario di restare il più possibile coerente con se stessa. Ogni volta che speriamo in un sussulto di coscienza, in uno scatto morale dei personaggi, rimaniamo tristemente delusi. Ozark non è una storiella di redenzione e riscatto. È un racconto amaro che si avvinghia alla parte più dura della realtà e non le lascia margine per inabissarsi dietro un lieto fine che faccia contenti tutti. È la storia di un’incoronazione, certo, di vincitori che camminano sulle spoglie dei vinti. Ma non c’è espiazione, non c’è salvezza, non c’è riscatto. C’è solo una biforcazione che separa il male minore dal male più acuto, quello più stridente e penetrante, e la scelta sembra quasi sempre obbligata, come se non esistesse più nessun’altra via. Come se le altre strade fossero state tutte cancellate, risucchiate per sempre dalla poltiglia che ha chiazzato le coscienze e che ne impedisce la vista persino ad uno sguardo attento.

In questa parte finale di Ozark, i personaggi saggiano il loro limite massimo, lo sperimentano e lo collaudano abbassando di volta in volta la loro percezione del male, silenziando di volta in volta la ribellione interiore a ciò che è storto, ingiusto, profondamente immorale.

Ambizione e realismo, sono queste le due facce con cui si presentano i coniugi Byrde. Laura Linney – stavolta presente sul set anche dietro la macchina da presa, come regista dell’undicesimo episodio – torna a dare vita alla sua Wendy interpretando un personaggio già oltre ogni limite della propria morale, eppure in qualche maniera vulnerabile e spaventato. Marty sembra aver sepolto il sogno di invertire la rotta e tornare alla vita di prima. Il peso che si porta addosso ha finito per schiacciarlo, costringendolo a fare i conti con se stesso e con ciò che è diventato. Mette a tacere gli scrupoli di coscienza in nome di una realpolitik familiare che non gli lascia più alternative, né vie d’uscita sgombre. Ozark non cerca un ritorno al punto d’origine. Ozark esplora le trasformazioni e le sfumature, guidando i suoi personaggi verso il loro unico approdo naturale: il baratro. Non so perché pensavi che fosse una scorciatoia, dice Wendy a suo marito, mentre entrambi sono impelagati nel traffico alla ricerca di un varco libero verso casa. Non esistono scorciatoie, solo svincoli che incrociano altri svincoli, in uno stradario sempre più accartocciato su stesso, labirintico. Da Ozark non si esce se non con la coscienza rotta.

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I soldi si lavano, le vite no.

In questo capitolo finale di Ozark, ciascun personaggio sembra averlo imparato a proprie spese, anche se alcuni epiloghi sono più tristi di altri. La splendida parabola di Ruth Langmore si è chiusa nella maniera forse più prevedibile e proprio per questo più sconcertante. Solitaria, chiassosa, triste, la giovane e sfacciata ribelle di Ozark è stata probabilmente una delle più formidabili scoperte di questa serie. Julia Garner è stata in grado di restituirle forza e fragilità, aggressività e angoscia, malinconia, creando un legame di profonda empatia con il pubblico (per un approfondimento sui personaggi femminili della serie, date uno sguardo qui). Una fine difficile, titola l’ultimo episodio. Una fine che probabilmente scontenterà qualcuno, perché i finali scontentano sempre e non si può mai essere contenti di qualcosa di bello che finisce per sempre. Possiamo pagarti, dicci il tuo prezzo. Marty Byrde non nasconde più quello che è, non ci prova neanche a venderti una storia diversa, un epilogo più mite. E allora la stilettata finale di Ozark sembra davvero svelarti il senso di tutto quanto, un’illuminazione improvvisa che spegne immediatamente qualsiasi illusoria aspettativa nella quale ci fossimo rifugiati. Ozark è benzina spalmata sulle coscienze dei suoi protagonisti: se accendi la miccia, non c’è modo di tornare indietro.

Voi non vincerete, voi non diventerete i Koch, i Kennedy o qualunque altra fo***ta élite a cui credete di appartenere. Il mondo non funziona così.

Da quando?!

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