È successo immediatamente. Stavo guardando la prima puntata di Patrick Melrose e in quel momento mi sono sentita trasportata all’interno di una bella copia di uno degli episodi delle Serie Tv che più ho amato al mondo: Stupid Piece of Sh*t, BoJack Horseman. Con il tempo mi sono resa conto che l’intrattenimento – una risata e via, per intenderci – non è quello che cerco da un prodotto o un personaggio. Inseguo perennemente l’ideale di una storia che abbia qualcosa da dirmi, uno spunto su cui riconoscermi, un dramma da cui non imparare niente se non che siamo tutti dei disperati, e io non sono un’eccezione. BoJack Horseman in questo senso è sempre stato impeccabile: rotto, disadattato, perennemente fuori luogo, sarcasticamente perfetto. È difficile trovare qualcosa che mi faccia risentire dentro quello che per me è uno dei posti più belli in cui rifugiarmi, ma con grande sorpresa ecco che mi sorprendo scoprendo che non è così difficile, forse, trovare delle nuove perle che riescano a stare al passo con quel capolavoro. Ed è qui e così che spunta fuori – assolutamente dal nulla – una miniserie che conquista, spiazza e dissacra ogni particella emotiva ancora intatta: Patrick Melrose.
Il primo episodio, il responsabile del paragone che ho appena fatto, apre le porte a una storia struggente che racconta quanto il passato sia un parassita che – attaccato alla tua pelle – non ti uccide, ma peggio. Rimane con te spingendoti perennemente verso il limite, verso la fine, verso quel momento disperato che ti sussurra che non ce la farai mai, e che non si tratta più di demoni. Ormai, dopo tutto questo tempo, tu stesso sei il demone. Hai assorbito così tanto quello che ti è capitato che, in un certo senso, sei diventato il suo frutto. Questa è la storia di Patrick Melrose, questa è la storia del suo disperato sarcasmo.
Ciò che contraddistingue questa miniserie – e questo lo si scopre fondamentalmente con il tempo – è che è un vero e proprio racconto di vita. Con i suoi sbalzi temporali costruisce una storia che racchiude periodi sempre diversi e lontani tra loro consegnandoci una versione già formata del nostro protagonista. Noi vediamo il frutto di ciò che gli è successo, tocchiamo concretamente le conseguenze di ciò che è capitato, beviamo il veleno che il passato – una volta stretto – rilascia. Il Patrick della prima puntata non è il Patrick dell’ultima e non perché nel frattempo abbia sviluppato chissà quale forma di auto conservazione, ma perché – semplicemente – si è evoluto, è cresciuto, e intendiamo letteralmente, anagraficamente. Lo riscopriamo anni dopo con lo stessa disperazione, ma ciò che fa la differenza sono gli anni che passano, punto. Non ci sono degli eventi, durante le cinque puntate, che mettono chissà quanta carne a fuoco: la storia è sempre quella, ma diverso è il modo di approcciarsi a lei. Perché Patrick Melrose è una seria reale che non ha bisogno di cadere nella trappola dei troppi avvenimenti o dei colpi di scena. Vuole essere biografica, di vita. E nella vita non si susseguono una lista infinita di eventi collegati tra loro da una serie di inspiegabili coincidenze. Nella vita c’è la normalità del dolore, la morsa di quel parassita che è il passato.
Non vediamo mai crescere Patrick, lo ritroviamo già “fatto e finito”. Tutto quello che è successo nel frattempo – tra il trauma e la sua età adulta, o tra la sua dipendenza e la sua riabilitazione, o tra il momento in cui decide di volere una famiglia e quello in cui la crea – non ci riguarda. Perché questa è una serie che parla delle conseguenze, di ciò che si diventa quando la disperazione aumenta stringendosi a te come una delle tue migliori amiche, come la sorella che non hai mai avuto. Ed è in mezzo a lei che trovi lui, uno dei protagonisti più drammatici con cui hai dovuto fare i conti. Il suo sarcasmo è tagliente, perennemente perfetto. Non è chiaro sapere se il personaggio che hai di fronte cerchi effettivamente la pace, perché quando la trova accanto a una persona che sa come addomesticare i suoi drammi, lui cerca altro, cerca l’incognita.
Forse vivere dentro una tempesta ti obbliga a non saperne vivere senza. Forse il caos – per quanto nemico – diventa l’unico posto dove si riesce a stare. Per questo probabilmente si lascia andare, durante il suo matrimonio, a una donna con con cui non ha mai avuto alcuna possibilità di stabilità. Era un’incognita, era una cosa infattibile, e proprio per questo l’ha fatta, perché lui – in quel momento – era a casa. Di fronte alla perfetta pazienza della moglie e alla vita normale di un normalissimo matrimonio, no. Quella era una vita lontana da lui, un qualcosa che non aveva mai toccato e che gli suonava totalmente estraneo. Ma alla fine, dopo tanta sofferenza, uno può anche provarci a star bene nel bene. No?
No.
Per avere una risposta positiva a questa domanda dovremo pazientare forse senza neanche certezza che accada veramente. Perché – chiariamolo – non esiste alcun tipo di lieto fine in Patrick Melrose. Quello che abbiamo di fronte è un finale che dà speranza, ma che non obbliga il protagonista a sorridere alla vita come se ne nulla fosse. Perché è questo uno dei problemi maggiori che riscontro nelle serie: quando arriva il momento dell’ultima puntata spesso tutto prende una piega forzata in onore della felicità, della serenità, e chi se ne frega di tutto quello che è successo prima quando si camminava con i piedi scalzi sui cocci. Non funziona così. Non possiamo pretendere che dopo dei drammi il lieto fine arrivi sfrontato e veloce, la felicità è un percorso. Ed è così che Patrick Melrose chiude la sua serie: promettendo che questo percorso, a un certo punto, potrebbe iniziare. Patrick stesso lo promette, ma poi per il resto nulla di più. Non possiamo obbligare un sceneggiatura drammatica a diventare una commedia.
Patrick è tornato in terapia per continuare un percorso perché non stava ancora bene, e probabilmente – visto il suo passato – non sarà semplice raggiungere uno sperato benessere. Ma il primo passo lo ha fatto, ed è questo che conta più di tutto. E ancor di più conta la delicatezza di un racconto che non vuole promettere che il bene trionferà sulle persone che hanno sofferto, ma che a un certo punto le cose si sbloccheranno e sarà tutto nelle le nostre mani. Come andrà a finire non lo possiamo sapere, ma chi se ne frega poi dell’epilogo? In mezzo a una tempesta non ci pensi mai a quello. Pensi a stringerti al palo che hai di fronte per non farti trascinare dal vento, poi pensi a dove mettere i piedi per non sprofondare tra le onde. Passo dopo passo impari a sopravvivere, a metterti in salvo, e poi, chissà.