Spettabili seguaci, fedeli che dalle prime puntate di questa rubrica leggete le mie umili parole sulle comparse di Peaky Blinders. Eccoci anche oggi con l’intento di decantare una follia diversa da quella di Alfie Solomons, diversa persino da quella di Thomas Shelby. La vittima che oggi imprigioniamo tra gli intrecci narrativi del nostro tempo è Arthur Shelby. L’incarnazione primordiale dell’istinto umano frenato ogni volta da inibizioni diverse.
La sua famiglia, sua moglie, la calma fin troppo ostentata della società. Arthur arresta la sua personalità, fino al momento in cui diventa davvero quello che è sempre stato, uno degli uomini cardine di Peaky Blinders.
Mi riferisco a un episodio in particolare. Ricorderete quello dell’ultima stagione che ci ha scosso e fatto tremare tutti. Era chiaro come le nostre emozioni fossero in quel momento uguali e sovrapponibili per intensità. Quell’istante ha dato ai nostri cuori lo spavento ottimale per considerarlo ancora più importante per la trama tutta. Ecco, allora tutti noi abbiamo sussultato per minuti interi e poi ripreso a respirare. Abbiamo gioito come se questa serie fosse la realtà. Senza regole di narrazione, senza effetti scenografici, siamo stati vittime di un inganno ben riuscito.
Ma cosa ci ha spinti, noi bipedi sgualciti, ad avere questa reazione così selvaggia, degna di un animale spaventato, così incongrua rispetto alla nostra solita pacatezza? La storia di un uomo, forse, condannato all’oscurità di un’ombra forzata. Il mai primo del suo nome. Il fratello di sangue di un protagonista che non ha rivali, se non lo stesso Alfie Solomons. Dinanzi a cotanto protagonismo, Arthur ha solo bisogno di non essere lasciato in canina solitudine. Eppure è così che tutto comincia a scendere verso il basso, come un picco negativo di matematica natura. È stata presa la decisione sbagliata, l’unica che non si doveva prendere. E come sempre accade a rimetterci è l’ombra e non la persona. Anche qui, la sua personalità cambia, diventa fragile, distrutta e contaminata.
Tocca a lui, e solo a lui riprendersi dal dolore continuo che non smette di ardere nella sua mente. Non ha mai potuto evitare di dare soddisfazione a una sua voglia ingrata e maliziosa, bere gli procura silenzio, offuscamento della sofferenza. Come l’alcol nessun’altra cosa, neanche l’amore di sua moglie.
Troppo poco si parla di come sia stato lasciato indietro quest’uomo. E di come, nonostante l’umana carezza della consorte l’abbia risollevato un pochino, sia stato lasciato nel limbo dell’autodistruzione. Da solo è riuscito a distruggersi e da solo è riuscito a uscirne.
Abbiamo accennato poc’anzi a sua moglie. La sua presenza non ha guarito Arthur in quel periodo di problematica sopravvivenza. Almeno fino a lì sono sempre sembrati inadeguati, incompatibili quasi, i due coniugi. Ma lungi da me mettere zizzanie tra due innamorati. Certo è che sembra quasi che Arthur voglia scappare e rinnegare la natura che lo rende com’è scegliendo ogni giorno lei. Impostata come elemento stabile all’interno di Peaky Blinders, la moglie è forse il pilastro di cui tutti si servono per deviare dalla normalità. È servita ad Arthur dopo la guarigione come punto di forza, serve agli altri come punto di partenza dal quale non partire mai. Avrete inteso come io creda che lei sia sufficientemente babbalona per essere menzionata nella storia di quest’uomo.
Possiamo ora tornare a quel fatidico episodio dell’ultima stagione (finora trasmessa). L’abbiamo visto tornare in vita come qualcosa che credevamo di aver già perso. Quegli istanti passati con il solo ricordo nella mente ci hanno donato consapevolezza. È il protagonista di una storia drammatica, quella dei Peaky Blinders, non essendo solo una comparsa, ma un uomo da cui dipendere per il proseguo della trama.