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Ho rivisto una puntata dei Power Rangers. Oggi

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Per chi è nato verso la fine dello scorso secolo, e ha avuto un’infanzia felice (forse). Per chi a carnevale si faceva cucire dalla nonna un vestito monocolore di un rosso sgargiante con tanto di cuffia da notte adattata a casco protettivo. Per chi riusciva a trasformare qualsiasi utensile da cucina, qualsiasi ramo trovato per strada e perfino lo scopino del bagno in una spada, grazie alla quale evocare mostri metallici. Per tutti questi eroi, ho deciso di riguardare un episodio dei Power Rangers oggi. Dei Power Rangers veri, quelli originali, quelli della prima stagione, datata 1993. I Mighty Morphin Power Rangers, o per meglio dire, la versione peggio vestita e, se possibile, più trash dei Teletubbies, con aggiunta di scene non lontane dal vietato ai minori di 18 anni.  

L’episodio in questione è il quinto della prima stagione, come detto, ormai lontana 26 anni.

Ma perché proprio la puntata 1×05? Leggendo i titoli degli episodi, uno più Melevisione Style dell’altro, mi sono imbattuto in quello che più di tutti ha messo in moto la macchina dei ricordi, impostando la modalità fiaba della buonanotte: Mighty Morphin Power Rangers – Il pifferaio magico. Troppo facile.

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Mai scelta casuale fu più azzeccata. Mai titolo fu più rappresentativo del filone serie tv a basso costo anni ’90, con trama degna della peggior puntata di Centovetrine e con set in stile recita scolastica di terza elementare

L’episodio, infatti, inizia in una pseudo palestra, scenario di buona parte degli eventi, dove i nostri giovani guerrieri, in borghese per l’occasione, vestiti più o meno tutti alla Willy il principe di Bel-Air (potete trovare un bell’approfondimento su alcune teorie in questo articolo), sorseggiano bibite analcoliche e ammirano con aria interessata, ormoni a mille e battuta pronta, un gruppo di donzelle felici che svolge attività fisica; più precisamente pilates, capeggiate dalla Pink Ranger, che dirige le attività ricreative.

Tra cliché immancabili per l’epoca, come lo sfigato del gruppo (Blue Ranger in orario di lavoro) dagli occhiali a fondo di bottiglia che si ridicolizza in pista non sapendo ballare, o i due sgherri dall’aria spavalda che, nell’intento di intimorire il gruppo dei protagonisti, infuriano una Dance Battle dagli esiti comici e ovviamente vinta a suon di giravolte dal “nostro” White Ranger, “l’intensità” dello script viene esaltata da un cambio di location improvviso e ingiustificato, che ci trasporta nel castello della perfida strega intergalattica Rita Repulsa. Non volendo soffermarmi troppo sul nome dell’antagonista (nemmeno un approfondimento di 200 pagine sarebbe abbastanza) continuiamo sulla strega, presentata come una Moira Orfei dal trucco più dark e la voce di Malgioglio, la quale si ritrova con i suoi scagnozzi, fantocci rubati a uno spettacolo di marionette della domenica mattina, nella sala centrale del palazzo, per tramare contro i Power Rangers e sguinzagliare sulla terra un terribile mostro. 

E se fino ad ora di problemi ne avevamo pochi, da qui in avanti sarà solo delirio e trionfo del gusto dell’orrido. 

Un effetto speciale che ancora oggi tormenta Stanley Kubrick nella tomba, catapulta la temibile minaccia spaziale inviata da Rita Repulsa nel nostro mondo; è Gnam Gnom ( uccidetemi ) “creatura stupendamente brutta che suona una fisarmonica ipnotica” citando testualmente il braccio destro della maga oscura. Uno gnomo deforme dai capelli rossi alla Rapunzel in hangover, dotato di copricapo vichingo in plastica ( lo trovate nei migliori negozi di giocattoli della Norvegia settentrionale) e capace di annebbiare le menti dei suoi nemici attraverso la musica. Il piano è quello di ipnotizzare un gruppo di ragazze, componenti della gang dei Rangers, e di portarle in una caverna nascosta nel nulla, così da attirare a sé gli eroi, tendere loro un’imboscata e sconfiggerli sul campo di battaglia.

In un primo momento il progetto sembra andare a buon fine, con le giovani intrappolate nella caverna e alcuni seguaci dello gnomo, festanti e soddisfatti, che fantasticano sul come poter cucinare gli ostaggi. Ormai inutile commentare anche il make-up e i costumi di questi ultimi, entrambi palesemente ispirati a quelli di una festa di Halloween finita male. Eppure una ragazza del gruppo, introdotta qualche scena prima del rapimento, non potendo udire la musica poiché sordomuta dalla nascita, e di conseguenza sfuggendo al tranello, raggiunge i Power Rangers, ancora in overdose da acqua frizzante, e li esorta a intervenire. 

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Signori e signore, è proprio allora che un pezzo della mia infanzia è andato in frantumi, perché pensavo di ricordare almeno le scene di combattimento con chiarezza. Mi sbagliavo di grosso. 

Il Dream Team al completo si scaraventa senza paura contro lo Gnomo; egli, brandendo un rastrello da giardino formato martello di Thor, riesce a contenere gli attacchi dei cinque in tutina elastica. È uno scontro semplicemente imbarazzante; ad ogni colpo di spada esplode un fuoco d’artificio per enfatizzare l’impatto, i robot con le sembianze dei dinosauri (Dinozord) che accompagnano ognuno dei Ranger sembrano fatti di lego, le grafiche utilizzate sono quelle dell’album calciatori panini 1986-87, ma non è tutto. 

Il Megazord. Il Megazord NO. Questa non l’accetto. 

Di giocattoli dei Power Rangers ne ho comprati, ne ho distrutti, ne ho persi, li ho amati, ho rubato dal portafoglio dei miei genitori per ottenerli e alcuni sono ancora intatti, da qualche parte, in camera mia. Ma il Megazord è, pardon, era un’altra storia. Anche quel ricordo andato perduto. Nel mio cuore c’era una macchina dalle dimensioni mastodontiche, dall’imponenza inarrivabile, dalla struttura devastante ( Il Megazord nasce dalla fusione dei vari Zord, robot più piccoli) e dal potere epico. Invece dopo aver visto questo maledetto episodio, ho ritrovato una sorpresa spiacevole.

E “sorpresa” è proprio la parola giusta, perché in realtà, il Megazord, guardato attentamente, con gli occhi di un giovane adulto, non è altro che uno di quei tristi gingilli da montare, nascosti nelle uova di Pasqua.

Dopo il finale, dopo la vittoria dei Defenders ante litteram, mi chiedo se tutte queste riflessioni non siano sbagliate.

In 20 minuti esatti, una serie del genere, qualche anno fa, raccontava a tanti bambini una storia, scritta male e girata peggio certo, ma pur sempre una storia. Erano storie coinvolgenti, uniche, sempre nuove, almeno per quei ragazzini e per quelle generazioni. Forse non sarà stata una buona idea riguardare questa puntata e non andrei avanti con altre nemmeno sotto tortura, ma è stato un modo per capire che ogni prodotto audiovisivo, specialmente quando indirizzato a un pubblico televisivo, ha un tempo e un’intenzione, va amato e odiato secondo la propria esperienza. Secondo la propria visione del mondo, e secondo l’età anagrafica. 

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