Come Hall of Series abbiamo intrapreso, ormai da qualche mese, un percorso con le recensioni a posteriori che ci permette di rievocare episodi particolarmente iconici delle serie tv più famose in circolazione, ma anche di riportare a galla vecchi traumi – irrisolti – di alcune serie del passato. Il mio cruccio più grande è sempre stato Prison Break, una serie che di iconicità e fama ne ha da vendere. Ma, purtroppo, anche di contraddizioni.
Mi lascio andare a una breve divagazione personale, al solo fine di inquadrare meglio quello che è il mio rapporto con questa serie. Prison Break è stata la serie dei miei anni delle superiori, quelli delle occhiaie al sabato mattina perché Italia1 dava i nuovi episodi il venerdì, in seconda e talvolta anche in terza serata. Andavo a dormire non so come, carico di adrenalina com’ero, ma anche estasiato dagli intrecci, dalle trovate geniali di Michael e dalle argute frasi ad effetto di John Abruzzi. Sognando che Westmoreland fosse il mio terzo nonno.
Parliamo di una di quelle serie che ha spesso spaziato sul confine tra l’americanata e l’autorialità, talvolta non sapendo bilanciare appieno questo binomio. Fin da subito ha saputo toccare i punti giusti per gli spettatori più testosteronici, ma al tempo stesso offrire una trama più complessa, che esulasse dal mero action drama, arricchita di simbolismi, riferimenti filosofici e semiotici, personaggi super caratterizzati e dialoghi brillanti.
Ciò è avvenuto soprattutto nella prima stagione, contrassegnata da una sinossi a dir poco geniale, impreziosita anche dall’espediente dei tatuaggi di Michael, la vera luce per uscire dalla caverna, per dirla alla Platone; la seconda stagione è la naturale conseguenza della prima, tenuta sulla retta via anche dall’introduzione di un personaggio enorme come Alex Mahone; la terza è stata azzoppata dallo sciopero degli sceneggiatori, ma partiva già con premesse meno intriganti; la quarta è un passo in avanti rispetto alla precedente, ma è molto più americanata che autoriale.
Poi arriva il finale, il vero finale di Prison Break, perché in questo mondo immaginario che mi sono creato mi aiuterete a fare finta che la quinta stagione non esista
Non è un’avversione da fanatico, capisco quando il mercato prevarica anche l’integrità di un prodotto. Tuttavia, il revival del 2017 è un tentativo malsano di speculazione su un telefilm che aveva esaurito tutte le sue idee migliori già da tempo e che, soprattutto, si era già giocata per ben due volte la carta del “finale perfetto”. In un’operazione nostalgia è complesso fare le cose per bene, in alcuni casi, come Dexter, ci riesci; in altri, se punti a ripetere meccanismi triti e ritriti non ottieni nulla di buono.
Se guardiamo strettamente alla qualità, Prison Break poteva tranquillamente chiudersi alla fine della seconda stagione. Fino alla quarta resta comunque godibile, pur richiedendo uno sforzo disumano alla nostra sospensione dell’incredulità. Mancano però i personaggi all’altezza di quelli che la serie ci aveva presentato agli albori. Manca la lucida ferocia di Abruzzi, manca la criptica saggezza di Chales Westmoreland, mancano varianti impazzite del calibro di Haywire o Tweener.
Nella scofield squad che collabora con i servizi segreti ci sono alcuni momenti memorabili, come il sacrificio di Bellick – e in generale il suo redemption arc – ma è nei due finali che la serie si spara le cartucce migliori. Il primo, dopo la risoluzione del caso Scylla, la cattura del Generale, la morte della madre di Lincoln e Michael e quella, avvolta nel mistero ma comunque permeata dal lieto fine, di Michael stesso. Con la frase di Gandhi (“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo“, menzionata con Sara Tancredi nel primo episodio) si chiude effettivamente un cerchio.
Poi arriva The Final Break, ovvero un film di due parti che chiude la serie, al punto tale che a volte viene riportato come 4×23 e 4×24, in coda ai 22 episodi canonici della quarta stagione. Questo vuole rendere tangibile ciò che per noi non era strettamente necessario, ma comunque non sfocia ancora nell’inopportuno: svelare le cause della morte del protagonista.
È dunque questo il grande elefante nella stanza che ci dà la forza di trascorrere due ore a vedere come Michael Scofield pianifichi la sua ultima evasione
Preso come contenuto a se stante, The Final Break è ben lontano dall’essere uno dei migliori episodi della serie. Sulla scia della terza e della quarta stagione propende molto di più per l’americanata, ma riesce a preservare l’emotività che ogni buon finale di serie, a prescindere dalla serie di cui stiamo parlando, deve garantire. Così andiamo oltre all’ennesimo arresto pretestuoso e l’ennesima improbabile evasione da organizzare.
Andiamo oltre anche al fatto che i personaggi – questa volta la serie è ambientata in un carcere femminile, essendo Sara la detenuta di turno – pur essendo migliori di quelli di Sona, non possono colmare il vuoto del cast originale: Daddy potrebbe essere un buon personaggio, ma Abruzzi è un boss migliore e, nel corso di 20 e passa puntate della prima stagione, abbiamo avuto modo di cogliere la sua complessità.
Andiamo oltre a tutto perché, in fondo, non ci saremmo schiodati dallo schermo finché non avremmo capito chi o cosa ci abbia privati di Michael Scofield. E, proprio in fondo all’episodio, ma soprattutto proprio in fondo all’intestino, semmai quell’organo sia veramente in grado di produrre serotonina, veniamo accontentati. L’ultima evasione non può riuscire senza il sacrificio del suo demiurgo: Michael deve morire per salvare la sua Sara.
Di nuovo la serie torna a cogliere l’essenza della sua natura. Prison Break d’altra parte non è mai stato un prison drama alla Oz, crudo realismo e critica sociale, ma è stato intrattenimento di alta qualità finché è riuscita a non snaturarsi. Ragione e sentimento. Tutto parte con un atto d’amore, quello di un uomo nei confronti di suo fratello, tutto termina con un gesto d’amore altrettanto puro.
We’re free now. We’re free.
Il colpo di grazia ci viene dato dalla ultimissima scena finale, ovvero il video messaggio che Mike ha in serbo per Lincoln e Sara e che rappresenta un po’ il manifesto spirituale della serie. “I want to say that I love you both… very much. And I want you to promise me that you’re gonna tell my child… that you’re gonna tell my child… how much they’re loved every day. And remind them how lucky they are to be free. Because we are. We’re free now… finally! We’re free!”
Amore e libertà sono i concetti di questo monologo e, ovviamente, le colonne portanti di questa serie. E questo finale ce lo ricorda, ribadendo il ruolo primario di ogni finale: essere specchio fedele della serie che va a chiudere, amplificando i punti di forza, così come i difetti. Per questo, anche se non qualitativamente eccelso, The Final Break incarna il finale perfetto. A prescindere da tutto ciò che c’è stato o ci dovesse mai essere dopo.