Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla 5×07 di Prison Break
Quando si riporta in scena dopo tanti anni una delle migliori serie tv di tutti i tempi, il rischio di un tonfo fragoroso è l’angolo. Il grande ritorno di Prison Break, accolto con sentimenti a metà strada tra la diffidenza e la nostalgia, sta tenendo fede solo in parte alla sua storia, deludendo da più punti di vista. Ogni giudizio definitivo è sospeso fino alla chiusura della stagione (e, salvo nuove resurrezioni, della serie tv), ma sette episodi sono sufficienti per fare un primo bilancio. Positivo, grazie principalmente al credito immenso accumulato nella prima era. Negativo, seppure non per colpa di autori e interpreti. Approfondiamo il secondo punto, il più spinoso.
La caratteristica che più di tutte ha fatto grande Prison Break è il ritmo forsennato con cui si succedono eventi, sensazioni e colpi di scena. Abbiamo vissuto l’intera saga in uno stato d’ansia perenne, sempre in fuga e contro tutti nella speranza vana di un happy ending. L’elemento è fin troppo presente anche nella quinta stagione, ma manca una contestualizzazione forte che ci permetta di vivere gli eventi con la stessa empatia di un tempo. Il problema non è il soggetto, elaborato sapientemente dalla mente geniale di Paul Scheuring. Quel che non funziona è la gestione della sceneggiatura, naturale conseguenza della scelta avventata di dar vita ad un sequel strutturato sulla miseria di nove episodi, invece degli abituali ventidue.
E dire che lo scoglio principale è stato superato alla grande. I dubbi principali sul ritorno di Prison Break, infatti, riguardavano la spiegazione della “resurrezione” del deus ex machina della serie, Michael Scofield. La giustificazione offerta è credibile e totalmente soddisfacente. Tuttavia non appaga fino in fondo tutto il resto, principalmente per una questione di tempi ristretti. Il soggetto avrebbe avuto bisogno di molto più tempo per essere metabolizzato e vissuto appieno, unendo così gli elementi peculiari della poetica di Prison Break.
Da questo fattore conseguono tutti gli elementi che non stanno funzionando nella nuova stagione. Pensate per esempio alla risoluzione del mistero principale del nuovo arco narrativo, l’identità del fantomatico Poseidon: la scelta di gettare quasi subito un’ombra su Jacob (marito di Sara), salvo poi ritrattare goffamente e svelare infine il suo vero volto con un colpo di scena telefonatissimo, non si sta rivelando azzeccata e non sta valorizzando a sufficienza un personaggio che avrebbe avuto le potenzialità per avere un peso specifico differente. Il villain di stagione, appena abbozzato con una buona dose di banalità, impallidisce di fronte ai nemici che i nostri protagonisti hanno affrontato in passato, dal criptico Generale al problematico Mahone. Loro hanno avuto tempo per emergere gradualmente, Jacob no. Lui, e tutti i nuovi ingressi di questa stagione.
La caratterizzazione dei personaggi è solo la punta dell’iceberg. La sintetizzazione eccessiva del soggetto comporta rischi ben peggiori, puntualmente concretizzatisi. La trama, intrigante e raffinata (ne parleremo diffusamente nelle prossime settimane, soprattutto a proposito dell’influenza della mitologia greca), è contorta e ramificata come solo Prison Break sa essere, ma la necessità spasmodica di ritmo si è trasformata in un’arma a doppio taglio. Gli escamotage utilizzati per portare avanti la storia sono forzati e hanno rasentato il ridicolo in più di un’occasione (quante persone si possono far fuori con un solo proiettile?), ci hanno impedito di vivere con la giusta passione alcuni snodi di grande portata (la morte di Kellerman, l’incontro tra Sara e Michael) e rischiano di fare di un elegante capolavoro una brutale americanata.
Insomma, il problema è a monte: il soggetto della quinta stagione è all’altezza dei precedenti, ma immaginate per un secondo cosa sarebbe stata Prison Break se avessero raccontato l’evasione da Fox River e la fuga a Panama nell’arco di una decina di episodi, invece di quarantaquattro. Sarebbe stato un disastro, c’è da starne certi. E in pochi si sarebbero innamorati della serie. Altrettanto si può dire per questa stagione: la prigionia a Ogygia e gli intrecci con l‘ISIL, appena accennati, avrebbero meritato un approfondimento maggiore e si può dire lo stesso per la sfida con Poseidon, un capitolo a parte.
Quando c’è tanto da sviluppare e lo spazio è ristretto, l’unico espediente possibile è quello utilizzato nella terza stagione, ambientata interamente (o quasi) a Sona: una storia all’interno di un’altra storia, tenuta in stand-by per un anno. Invece no, ci troveremo probabilmente a parlare di una grande occasione sprecata e di un’opera d’arte bistrattata per mere esigenze commerciali. Se davvero Prison Break finirà così, l’unica speranza che ci rimane è di avere una seconda conclusione all’altezza della prima. Altrimenti dovremo arrenderci all’evidenza: Michael Scofield è morto sette anni fa, e la Fenice non è risorta dalle proprie ceneri.
Antonio Casu
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