Prison Break è per gran parte del pubblico un ricordo affettuoso. Il concept, nel 2005, è innovativo e la serie inizia bene. Promette bene: un intreccio forte, valori forti come amore e famiglia, tensioni primordiali, attacco, fuga, passione, sacrificio e arguzia.
Personalmente rientro tra coloro – saremo pochissimi – che hanno scelto di vederla a posteriori, adesso, quasi 20 anni dopo. L’idea di recuperarla oggi è legata anche all’offerta di una piattaforma appealing come Disney Plus che favorisce il piacere di dedicarsi alle maratone e a viaggi visionari. La domanda che oggi, nel 2023, ci e vi poniamo è: ma è invecchiata bene?
A mio avviso, ahimè, no. È stata inedita e innovatrice a suo tempo, ha fatto breccia e creato un unicum negli anni 2000, e resta assolutamente da vedere, ma non è stata una serie visionaria.
Soprattutto l’idea geniale che c’era alla base non ha tenuto il respiro ampio per quattro, decisamente troppe, stagioni.
Il progetto di produrne poi una quinta, nel 2017, è stato estenuante con un finale che ha davvero deluso da ogni punto di vista. Potevamo farne a meno. Ci sono serie che fanno la storia, la inventano, la coniano, pensiamo a The Sopranos, che ha forgiato un nuovo modo di pensare, produrre e fruire la televisione, dal 1999 in poi. Ci sono altre serie, come Prison Break, che fungono da intrattenimento disimpegnato nell’epoca in cui si trovano, in questo caso tra il 2005 e il 2009. Un divertissement commerciale in linea col pubblico generalista, specialmente americano. È una serie nata e settata sugli States che fatica a sconfinare, nello spazio e nel tempo.
Dopo una prima stagione cult eccitante – per quanto lunghissima, 22 episodi – la fiction perde progressivamente potenza, episodio dopo episodio. Le interpretazioni di Wentworth Miller (Micheal Scofield) e Dominic Purcell (Lincoln Burrows) si irrigidiscono su una modalità piatta e monocorde. Rispetto alla profondità di analisi psicologiche e caratteri sfaccettati e poliedrici, cui siamo oggi abituati, qui è come fossimo in un sogno naturale, comune, spesso prevedibile, che inquadra il procedere dei fatti avversi della vita.
Possiamo ben capire e accettare come la trama richieda sviluppo ma oggi, vocati ad altro spessore di scrittura, e all’impatto notevole – ad esempio – delle miniserie, risulta difficile rimanere immersi in una tale lentezza narrativa.
La serie si basa sull’intreccio, è un quadro d’insieme, dove manca la terza dimensione, la profondità.
Wentworth Miller e Dominic Purcell, entrambi con i capelli rasati, sono due fratelli: Micheal e Lincoln che insieme lotteranno per conquistare la libertà da un sistema politico, il Governo statunitense, che li insegue, li ingabbia e, soprattutto, impone per Lincoln la pena di morte. È qui che inizia la trama, nella prigione di Fox River, nell’Illinois dove Michael si fa rinchiudere per aiutare, per altruistico amore, il fratello ad evitare l’esecuzione, in quanto innocente, e ad evadere.
Il piano di evasione è tatuato sul suo corpo, impresso a memoria nella sua intelligenza acuta, ingegneristica, quasi computerizzata. Bellissima la soluzione del tatuaggio sul fisico scolpito di Wentworth Miller con la planimetria del carcere, quasi un richiamo a Memento di Christofer Nolan. Bella anche la progressione di scoprire quanto sia intelligente e astuto lungo il suo percorso di eroe.
Ma, dal punto di vista dello spettatore, quanto dura lo scavo del tunnel dalla cella di Michael? Quanti gli impedimenti all’azione, che potevano essere risolti in 6, massimo 10 episodi? Queste sono solo alcune delle domande che mi sono posta, recuperando oggi Prison Break.
Vi sono scene forti, la tensione in alcuni punti sale, ci si commuove anche. Come nel momento dell’esecuzione, poi sventata, di Lincoln: il giorno in cui la pena di morte arriva, la vita verrà troncata e con essa la verità. Si piange nello scambio di sguardi tra i due fratelli. Al contempo la prevedibilità è totale e questo non concerne il momento storico della visione, il fatto che la si veda 18 anni dopo conoscendone la trama (ma senza spoiler). È prevedibile in sé e smorza l’eccitabilità, somigliando sempre a se stessa.
Questo è uno degli aspetti principali per cui resta un telefilm, piuttosto che una serie di caratura. Un telefilm bello, avvincente di quelli che possono andare in onda una sera a settimana su Italia 1, così come è accaduto, lasciando un po’ di ansia che presto passa.
Siamo lontani da serie a essa contemporanee come Dexter (prima stagione in onda nel 2006) o Sons of Anarchy (prima stagione in onda nel 2008). E siamo lontani anni luce dai meccanismi di suspance immortale e universale del Maestro Alfred Hitchcock.
La serie segue un sistema di sviluppo a blocchi segnato dallo stacco rapido che appare più volte all’interno del singolo episodio. Un pattern di coloriture ripetitivo senza l’ansia degli stacchi – ad esempio – di 24, dove il countdown segnava ore e minuti fondamentali perché il nostro eroe, Jack Bauer, portasse a termine la missione del giorno.
Ore e minuti che coincidevano con quelle realistiche delle nostre giornate, un concetto rinnovatore del meccanismo seriale, avanguardistico. Senza voler fare un puntuale confronto con 24, serie tv davvero visionaria (in onda dal 2001 al 2010) non possiamo tuttavia non notare come le sceneggiature incentrate sulla tensione siano diverse. Orizzontalità e verticalità delle storyline rendono 24 intrigante e sempre tesa. Cosa che invece non accade in Prison Break dove la trama orizzontale domina incondizionata ma rallenta, rallenta se stessa e sfianca noi.
Forse questo è un parere atipico, per qualcuno eretico, perché Prison Break è sempre stata considerata una serie ingaggiante da binge watching spietato. Per me, che sono una binge watcher, questa sensazione è durata poco. Penso che completare la terza stagione sarà un’impresa.
Last but note least, in un tempo di eroi ibridi e villain di spessore, in Prison Break, il loro ruolo appare dispersivo, confusionario, privo di personalità forti. Gli stessi comprimari non sono mai decisivi. Aleggiano attorno a Michael nella geografia claustrofobica del carcere della prima stagione; vagano e si disperdono lungo le strade degli States, nella seconda, inseguendo sentieri di fuga già tracciati dai due protagonisti.
Prison Break ha un’identità forte nella misura in cui ripete se stessa, in modo rassicurante.
Le informazioni restano le stesse e vengono spalmate allo scopo di rassicurare e tenere incollato, settimana dopo settimana, lo spettatore generalista. Tuttavia, 20 anni dopo. questo effetto sorpresa con cliffhanger tautologici non sorprende più.
La ridondanza è anche interpretativa: Wentworth Miller e Dominic Purcell, col trascorrere della serie, sono sempre più conformi nella voce, nei dialoghi, nelle espressioni, negli sguardi, nella prossemica. La recitazione diventa fiacca e incolore. Li abbiamo conosciuti e adesso risultano anche loro sempre uguali. Il volto di Michael è enigmatico, vispo, ma finisce con l’omologarsi in una maschera fissa tra intelligenza machiavellica e altruismo. Lincoln, Dominic Purcell, il bell’attore australiano, nella seconda stagione, sembra un modello più che un ex detenuto scampato alla morte.
Prison Break è un ricordo tenero, che andava benissimo nei suoi anni, ma che poi ha abdicato. Una scoperta pregevole, può aprire la strada ad altre visioni e serie simili per gli appassionati di prison drama, ma si può non completare senza particolari rimorsi o incertezze. Perché non è speciale dalla prima stagione, è speciale nella prima stagione. E anzi, concediamole anche la seconda.
E voi… che ricordi avete e cosa ne pensate oggi dell’epopea di Prison Break?