Questa storia inizia ad Arezzo. Sì, Arezzo. E no, non è un omonimo paesino nei dintorni di Roma ma proprio il capoluogo di provincia toscana. Qui nasce Zerocalcare, all’anagrafe Michele Rech, che di romano all’apparenza non sembra avere proprio nulla. Né il cognome, tipico del Veneto, né la nascita e neanche la madre, francese. Michele per ‘sta cosa ce rosica un sacco ancora adesso e questo preambolo sicuramente non gli piacerebbe, ma essere romani – lo dico da romano – non è una questione di nascita e neanche di eredità. Essere romani è un’altra cosa. Perché questa città, madre e matrigna, con la sua immobile bellezza e la mastodontica, goffa grandezza di un mammut accoglie tutti e affascina molti.
Alcuni, poi, li lega a sé per sempre.
Ed è per questo che a Roma non devi sorprenderti se senti partire un insulto agli avi dalla gola di un ragazzino con i tratti asiatici o se la signora del quarto piano – un’infanzia e una famiglia in Puglia – sembra la sora Lella quando parla di matriciane e rigaglie di pollo. Roma è così, e ogni quartiere diventa una culla, un microcosmo dal quale non riesci a separarti, degradato e bellissimo insieme. Per questo, Michele Rech, nato ad Arezzo, di madre francese, è più romano di ogni romano. E anzi non è solo romano ma proprio di Rebibbia. È un ragazzo di borgata, di uno di quei mondi tutti chiusi in pochi isolati che contengono tanta, troppa vita.
Ci sono bambini che giocano e litigano, adolescenti con i loro gruppetti contrapposti, giovani uomini anch’essi schierati, centri sociali, sezioni di partito, gente comune, vecchiette allegre, altre meno allegre e teste di… coccio di ogni età. Professori, delinquenti, alternativi, cani randagi e cinghiali. C’è di tutto a Rebibbia, come in ogni borgata che si rispetti. Ed è in questo contesto che cresce e si accoccola Michele. Non è una vita facile, quella di quartiere. Impari fin da piccolo che quei luoghi confortanti di cui conosci ogni angolo possono essere ogni giorno ugualmente alienanti e respingenti.
Così devono apparire anche a Michele, che fin da piccolo risulta molto diverso dai suoi coetanei. È poco integrato, chiuso in un mondo di carta del quale inizia a scoprire i segreti in religiosa solitudine. Lo fa con uno sguardo indagatore, con un’ostinazione che solo le grandi ossessioni possono infonderci. È proprio questo mondo a fungere da ponte verso gli altri per l’introverso bambino, mezzo di comunicazione imprescindibile per superare lo stacco con la realtà. A distanza di anni sarà un suo ex compagno, con un grosso faldone di vecchi disegni in mano, a fargli rendere conto di quanto lui, Michele, con i fumetti fosse sempre stato fissato. E ne facesse per tutti e su tutti: professori, compagni, gente di quartiere.
Non è il più “fico” del villaggio, tutt’altro, un tipo ben strano… Ma “almeno disegna molto bene”, dicono le sue compagne di scuola.
Si ispira ad Akira Toriyama: ne studia i mezzi stilistici, la resa anatomica dei volti, la fermezza dei tratti. Studia e replica. E tutto gli riesce naturale, elegante, vivace. In questa borgata tutta interiore, fatta di carta, gomma e mina trova le sue sicurezze, la zona di comfort in cui poter spazzare via ogni disagio. Ma non c’è solo Toriyama e Dragonball: Michele legge avidamente tutto ciò che gli capita sotto mano, da Lupo Alberto a Sturmtruppen di Bonvi passando per Tiramolla e perfino Minnie & Company (“Perché ci disegnava Silvia Ziche“, tiene a precisare in un articolo per Esquire).
Però oltre al disegno la vita è anche altro e giorno dopo giorno da te pretende sempre qualcosa in più. Un evento nella sua infanzia lo colpisce particolarmente: un gioco con un altro bambino che rischia di finire nel modo peggiore. Michele è scosso, assalito dai sensi di colpa, da un polpo alla gola che a distanza di anni proverà a esorcizzare scrivendone, naturalmente, in un libro a fumetti.
L’evento lo segna particolarmente e ne acuisce le insicurezze sociali mentre l’adolescenza si fa largo e chiede conto di sé. Il ragazzo per gli altri è nella migliore delle ipotesi un timido e nella peggiore un disadattato dal carattere cupo: prova a integrarsi ma proprio non fa per lui. Quella vita di discoteche pomeridiane e bevute serali non gli appartiene. E il disegno stavolta non può bastare a salvarlo. È il 1998, Michele ha quattordici anni e i giornali riportano la notizia del suicidio di due anarchici no TAV: un evento che lo segnerà per sempre. Caso vuol che quella stessa estate, al Foro Italico, partecipi a un concerto dei Chumbawamba di cui amava molto le sonorità. In quest’occasione la band si presenta in formazione ridotta: la cantante era stata coinvolta il giorno prima in un corteo a sostegno dei due anarchici suicidi, poi degenerato in scontri.
Sul palco il gruppo fa salire diversi membri dei centri sociali romani, tutti con uno striscione a ricordare gli eventi dei giorni precedenti.
Michele resta folgorato: torna a casa, legge e traduce i testi dei Chumbawamba e scopre un mondo. Alternativi, punk, radicali: il ragazzo capisce che quello può essere il suo mondo, che la diversità, in quei gruppi, non sarebbe vista come una debolezza ma una forza. C’è immediata sintonia, diventa il punk che non sapeva di essere già. Il suo è un impegno progressivo che si fonde e confonde alla grande passione della sua vita: realizza locandine per eventi di centri sociali, concerti e iniziative varie fino alla prima svolta della sua carriera. Ad appena diciotto anni pubblica un fumetto sui fatti del G8 di Genova: il lavoro ha un grande successo, si diffonde in vari circoli e negli ambienti di sinistra. Ne seguono prestigiose collaborazioni, compresa quella per l’inserto mensile underground di Repubblica (Repubblica XL).
Appena un anno prima Michele era entrato in alcuni forum no global e si era trovato di fronte a un problema apparentemente banale eppure esistenziale: quale nickname darsi? Qualcosa che lo definisse, che ne esprimesse l’essenza, un nome d’impatto, ricercato, paradigmatico, … Non riusciva proprio a trovarne uno e allora ad avere la meglio era stato il suo fancazzismo. Alle sue spalle la televisione trasmetteva una pubblicità che ripeteva “Zero Calcare!“. Massì, perché no? Originale è originale. Quantomeno la gente si chiederà perché Zerocalcare. E usciamo da ‘sto impasse, che è un’ora che sto al pc.
Zelcalcare ha quasi vent’anni e la vita, di nuovo, torna a bussare alla sua porta. Stavolta il nuovo polpo alla gola, la nuova pressione sociale non viene dagli altri ma da sé stesso. Zero sente il peso di ogni giovane contemporaneo: il peso della precarietà, dell’incognita del futuro, della mancanza di prospettiva. Guarda attorno a sé e vede un mondo di amici ben direzionati, che con incredibile naturalezza sembrano seguire la loro strada. E lui? Lui non pare avere questa incrollabile certezza per la sua vita. Si iscrive all’università: Lingue. La madre ha una laurea, e chi è lui – si chiede ingiustamente – per far fare un passo indietro alla sua famiglia nella gerarchia sociale?
Le cose, però, non vanno.
In quel mondo di lezioni, burocrazia e isterismo Michele proprio non ci si ritrova. Di nuovo, i colleghi di studio, come i suoi amici, sembrano sempre sapere cosa fare: sanno dove andare, sanno dove trovare i testi, come approcciare allo studio, gli spostamenti delle aule e degli orari delle lezioni. E lui sente di non avere quei codici segreti che gli altri padroneggiano. Finisce per mentire: dice di andare in università ma fa solo il tragitto, si ferma al capolinea e torna indietro. Nel frattempo continua avidamente a leggere e disegnare.
Michè, ma che ne dici se sospendi con l’università e provi a lavorare? Solo per un po’, deve avergli detto un suo parente vedendo qualcosa che non andava. E lui ha finalmente la scusa e l’appoggio che cerca. Sospende gli studi e non si guarda indietro. Non può saperlo, ancora, ma è la vera svolta della sua vita: senza gli impegni accademici e le ore di studio dedica tutto il suo tempo libero al disegno, il rifugio di sempre, la consolazione di una vita.
Ma la luce è ancora lontana e il polpo continua a stringergli la gola: approccia a ogni tipo di impiego, finisce perfino per lavorare in aeroporto, in un call center, dà ripetizioni. Accetta tutto ciò che può garantirgli qualche entrata: senza sapere neanche come, si ritrova a fare la traduzione di documentari di caccia e pesca. Insomma, davvero di tutto. E l’ennesima speranza nutrita si rivela ancora un buco nell’acqua: vince un concorso per la DC Comics votato da tutti gli amici e conoscenti dell’universo punk. Può essere la grande svolta ma la collaborazione si esaurisce dopo un anno nell’indifferenza più totale della controparte.
Zerocalcare rimpiomba nella sua precarietà, nell’incertezza congenita di un’intera generazione protesa tra sogni lontani e cruda realtà quotidiana.
Ancora un turbinio di lavori e lavoretti, tutti con contratti inferiori a sei mesi. Michele è a un passo dal fallimento. Non riesce a mantenersi più. Non può far altro: deve tornare a vivere con la madre. È già pronto a fare le valigie, a impacchettare il suo mondo di indipendenza, lotta sociale e sogni infranti. Ma Zerocalcare in tutte le difficoltà, in tutte le incertezze, le angosce, i polpi alla gola della vita non ha mai dimenticato come fare per evitare di disperare. Disegnare: il suo sfogo, la sua salvezza, il suo ponte comunicativo con gli altri. In questo, davvero, Zerocalcare viene dal futuro. In quel mondo di carta sa essere diretto, avvincente, divertente, pungente. Esce tutta la sua sensibilità interiore che nel mondo reale rimane soffocata da timidezze e imbarazzi.
E ora, di disegnare, ne ha bisogno più che mai: muore improvvisamente una sua amica, Camille, e Zero non sa cosa pensare, cosa sentire, cosa fare. Riversa tutto su carta, in alcune strisce che pubblica su FB senza condivisione pubblica. Eppure, quelle strisce in qualche modo, tramite un amico comune, arrivano fino a Makkox, noto fumettista e vignettista, che sta per fondare una nuova rivista. Makkox le osserva, le legge, con sguardo serio e fisso, poi fa, semplicemente: “Mi piace, digli di scrivermi“. È l’inizio della collaborazione che porterà Zerocalcare alla prima pubblicazione di un albo a fumetti: La profezia dell’armadillo. È l’inizio del grande successo e anche la fine di questa biografia meno nota di Michele Rech, una storia di polpi alla gola, sogni mai accantonati e ragazzi disadattati.
Emanuele Di Eugenio