Paramount+ guarda indietro e avanti al tempo stesso e, con Rabbit Hole, punta ad estrarre un diamantino d’azione da quel colosso della serialità americana, siglata Fox, che è 24. 24 ha determinato un passaggio fondamentale nella storia delle serie Tv. Ha dichiarato la propria identità sin dall’inizio fornendo una chiave di lettura allo spettatore molto chiara e mirata a invogliarlo ad andare avanti. Rabbit Hole vi si ispira e ne riprende alcuni tratti, adattandoli a un modo di scrivere attuale e contemporaneo, anche convenzionale, creando una compattezza narrativa e una lunghezza delle puntate in linea con quanto siamo abituati a fruire oggi. E forse proprio per questo, vincente.
24 è il modello, l’impianto teorico, fondativo del richiamo all’azione attorno cui si sviluppa la nuova serie.
E il suo protagonista Kiefer Sutherland – per tutti infinitamente Jack Bauer – ne è l’emblema, il simbolo della continuità. Ci sono gli Stati Uniti d’America, c’è la politica – oggi anche l’avanzato uso delle tecnologie – ci sono i buoni e i cattivi che si trovano a lottare per un potere che influenza lo stato delle cose senza che lo si possa vedere. Intangibile.
Kiefer Sutherland è qui un eroe virile più sfaccettato, che abbandona la compattezza morale che caratterizzava Jack Bauer – disposto a tutto, a farsi torturare, a lasciare la famiglia e finanche a morire per salvare il suo Paese – per divenire un eroe acuto e fragile che oscilla tra le ambiguità della sua persona e della sua stessa esistenza: ha una (anti)etica del lavoro e una convinta e convincente abilità nella manipolazione e nell’inganno per raggiungere discutibili obiettivi. Rabbit Hole è infatti una thriller story di spionaggio industriale in cui John Weir dirige una company impegnata nella gestione di dati sensibili attraverso cui manovrare movimenti di mercato e smascherare “vizi”aziendali, al fine di far prevalere le politiche dei propri clienti su quelle dei competitor, facendo loro guadagnare ingenti somme di denaro.
Prodotta da Paramount+ e creata da John Requa e Glenn Ficarra, giunge in Italia il 26 maggio con una prima stagione da 8 episodi e si configura subito come un nuovo, vivace coniglio tirato fuori dal cilindro del network. Una vera, intrigante sorpresa. Paramount+ infatti, con le sue recenti produzioni, tra cui From e Yellowjackets, si sta posizionando in un ottimo range di qualità dell’offerta in rapporto alle altre piattaforme, come Netflix che negli ultimi anni hanno collezionato non pochi flop.
Se con Yellowjackets abbiamo vissuto un’atmosfera da thriller psicologico a tinte horror, seguendo le vicende delle ragazze della squadra di calcio femminile del New Jersey nei doppi archi temporali della loro vita; se con From siamo stati anche noi catturati e risucchiati nei confini invisibili di una città inesistente, immersa in una foresta tra misteri orrorifici e morti viventi capaci di infondere paura, quella vera, con Rabbit Hole, Paramount+ gioca la carta del dramma d’azione dalle linee cospirazioniste, che pone domande su domande per tenere lo spettatore agganciato alla narrazione. Se ci si aspetta che le risposte arrivino, non è una prima stagione capace di corrispondervi. Se invece ci si lascia trasportare dentro le sfide, potenziali e rischiose, degli algoritmi e di un mondo governato dalla tecnocrazia mossa dall’alto da mani invisibili, allora è la serie giusta.
Rabbit Hole è una sorpresa che intriga per i suoi intrighi. Crea suspense giocando sul complotto. Da subito l’azione – ma anche le relazioni umane – sono protagoniste.
Il pilot ci fa immergere, dalle prime scene, dentro la mente paranoica di John Weir che cerca un prete per condividere i suoi pensieri, oppressi da dubbi e ansie. Nelle scene successive, lo vediamo recarsi in un bar, dove incontra una donna, Hailey Winton (Meta Golding) con cui trascorre la notte. Al risveglio la paranoia lo assale, trova una microspia nella camera d’albergo e si convince che anche lei – come chiunque vedremo nella serie – possa essere una spia mandata a seguirlo. Hailey diventerà invece, lungo la storia, un’alleata e un amore di Weir. Tuttavia, la costruzione ambigua dei personaggi e della narrazione rende tutto, e il contrario di tutto, possibile.
L’avvio della première è dunque potente: John vede capovolgersi improvvisamente la sua vita quando viene incastrato per omicidio e comincia la sua fuga volta a poter dimostrare la sua innocenza. In questo incipit troviamo delle assonanze con 24. Anche in 24 infatti il nostro amato eroe Jack Bauer si trova spesso a dover difendere la propria innocenza davanti a complotti arditi alle sue spalle e a innumerevoli tentativi di arresto e assassinio.
Il Pilot della serie Paramount si volge presto all’azione: Weir assiste alla potente esplosione di una bomba che fa saltare in aria il suo ufficio, con i suoi collaboratori all’interno, mentre lui è in strada a guardare, vedendo arrivare polizia e vigli del fuoco, persone che filmano con i cellulari. Bombe e fughe sono un grande classico delle interpretazioni bidimensionali ma sempre accattivanti e in corsa contro il tempo di Kiefer Sutherland. Un attore che abbraccia il ruolo e lo fa suo, aggiungendovi carisma e fortissima personalità.
Il tempo, come in 24, è un elemento centrale.
Il Pilot di 24 – lo ricordiamo – è uno dei più memorabili della storia con la scritta a led del titolo seguita dalla voce fuori campo che legge un testo in sovraimpressione “quello che segue avviene tra mezzanotte e l’una del giorno delle primarie presidenziali in California. Gli eventi sono narrati in tempo reale”. Una dichiarazione di intenti che sottolinea non solo quanto la temporalità sia importante ma – con la compresenza simultanea di testo e voce fuori campo – la serie fa capire che userà sempre le proprie strategie narrative in modo esplicito.
La sigla di Rabbit Hole riprende la brevità concisa e la grafica computerizzata di 24, aggiungendo, nell’immaginario pop tech, i database e la pioggia di cifre e geografie d dati che scorrono nella “tana del Bianconiglio”.
24 ricorre, sin dal pilot, allo split screen per mostrare diverse prospettive della stessa azione a aggiungere tensione e dinamismo. Rabbit Hole ha un registro visivo più convenzionale ma anch’essa da subito fa comprendere come giocherà sul doppio livello, estetico e semantico, in cui ciò che vediamo quasi mai combacia con ciò che è vero, rilasciando progressive dosi di adrenalina.
Kiefer Sutherland, anche produttore della serie, interpreta un ruolo che – seppur ispirato a Jack Bauer – se ne distanzia. Non è tutto d’un pezzo, granitico. Anzi, proprio perché il tema di fondo è il doppio, l’ambivalenza, anche John Weir è la personificazione del concetto. Maestro dell’inganno, con un’intelligenza numerica sopra la media, un’abilità di destreggiarsi nel mondo della finanza e degli algoritmi con estrema self confidence, presenta dall’altra parte un tessuto psichico fatto di nevrosi e paranoie.
Scopriamo attraverso i numerosi flashback quanto la sua infanzia sia stata complessa dopo aver assistito al suicidio (falso) del padre poi scomparso: il misterioso Dr. Ben Wilson, ex agente operativo della CIA, interpretato da Charles Dance che farà il suo ingresso nel corso della stagione affiancando John nella sua lotta contro il nemico invisibile che lo ha incastrato. Un nemico che opera attraverso la tecnologia e i media. Un nemico che non si vede ma che, utilizzando il potenziale dei big data, soprattutto i dati sensibili, riesce a manipolare tutto: internet, le azioni e i mercati, i giornali, la televisione, le vite delle persone stesse.
Rabbit Hole è quindi un thriller spionistico che gioca con le aspettative e credenze dello spettatore, mescolando le carte del gioco e delle verità, proprio come nella tana del (Bian)Coniglio dove tutto sprofonda e finzione, trucchi e realtà si confondono tra loro.
Gli episodi pensati da Paramount+ e dai creatori, le stesse firme che stanno dietro a This is Us, scorrono veloci, determinati dalla preponderanza dell’azione sui dialoghi e sulla profondità dei personaggi. Un esempio di scrittura seriale di tutt’altro genere rispetto a This is Us per gli artefici John Requa e Glenn Ficarra. L’indagine introspettiva più profonda qui è solo quella dentro la mente e i vissuti, l’infanzia di Weir, riproposta attraverso flashback, che fanno da contraltare alla spettacolarità delle scene del presente. John corre con le macchine e i furgoni, con il corpo e col pensiero e noi dobbiamo stargli dietro.
Sebbene ogni tanto la serie si perda in momenti prolissi che – mancando di profondità – possono risultare pleonastici rispetto a quanto già sappiamo e abbiamo visto. Rabbit Hole rimane piacevole e seguibile fino alla fine. Le informazioni tendono a perdersi ma la scelta vincente di Paramount+ di circoscrivere la storia in 8 episodi ne facilità l’introiezione.
A fine stagione, sappiamo molto di più sia di Jown Weir che del suo schema di amici, alleati e nemici. L’unico volto che non vediamo è quello della metafora del potere, il volto oscuro dell’organizzazione che vuole atterrare professionisti dello spionaggio come John e la sua squadra per impossessarsi del governo del mondo e delle economie.
Rabbit Hole è una punta di alto livello in un genere, quello del thriller cospirativo, che in questi anni ha sofferto molto. La suspense che fino all’ultimo ci tiene collegati in streaming sarebbe dunque un buon incipit per una nuova stagione e per l’ipotesi che la serie Paramount+ – se affinata e spinta a dovere – grazie alla centralità indiscussa di Kiefer Sutherland, e a un cast attorno a lui di rilievo, possa consolidarsi nei prossimi anni.