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I Promessi Sposi del Trio hanno scritto una delle pagine più belle nella storia della Rai

i promessi sposi
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Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su I Promessi Sposi del Trio.

Come si racconta la storia della Rai a un ventenne abituato ai format consunti ai quali siamo abituati oggi? Come si trasmette l’idea che la Rai sia stata, per decenni, altro? Un laboratorio creativo e culturale, un macrocosmo fatto di idee e talento, professionalità e audacia. In due parole, servizio pubblico. Persino avanguardia, a tratti. Non confinata negli orari più improbabili delle emittenti satellite, bensì in prima serata. Sul primo canale. Quando ancora le alternative scarseggiavano e la Rai rappresentava un perno che solo allora veniva scalfito per la prima volta dalla concorrenza berlusconiana.

Sì, è innegabile: è impossibile generare un racconto organico che racchiuda le infinite sfumature della storia settantennale della Rai, ma si possono fare degli esempi. Dei nobilissimi esempi che rappresentino uno spunto per il presente e non solo dei nostalgici ricordi di un passato ormai remoto. Degli spaccati che sono figli di un percorso editoriale rimarchevole, orgogliosamente italiano.

Come si potrebbe fare se si evocasse la parodia de I Promessi Sposi, realizzata dal Trio nel 1990.

Pensateci un attimo: sarebbe possibile, oggi, spendere un budget importante per mandare in prima serata su Raiuno la parodia dissacrante di uno dei romanzi più significativi della letteratura italiana? Qualcuno si metterebbe mai in testa di poter realizzare un’opera d’arte del genere, valutando correttamente il potenziale del pubblico che avrebbe voglia di dare un’opportunità a un’opera simile? Con ogni probabilità, no.

Nel 1990, però, si viveva in un mondo differente: un mondo un po’ più libero, al di là delle apparenze. E la Rai era un’entità completamente diversa.

Accadde allora che il Trio – con l’articolo determinativo – composto da Anna Marchesini, Massimo Lopez e Tullio Solenghi si mise in testa di prendere per i fondelli i Promessi Sposi di fronte a decine di milioni di persone. Rendendoli, se possibile, ancora più popolari. Persino più belli, regalando una seconda vita a un’opera che da Manzoni si è trasmessa a lettori, appassionati e semplici passanti con l’indispensabile dinamismo interpretativo di cui sono dotate le opere massime.

Tutto nacque da uno dei progetti più ambiziosi della Rai di quegli anni, ormai al tramonto dell’epoca dei grandi sceneggiati: un kolossal incentrato sull’opera manzoniana, diretto da Salvatore Nocita. Un cast di primordine in cui comparivano, tra gli altri, nomi del calibro di Burt Lancaster, Dario Fo, Valentina Cortese e F. Murray Abraham, diede vita a un’opera di grandissimo successo, seppure piuttosto osteggiata dai critici. Niente di sorprendente: il percorso seriale della Rai è stato d’altissimo livello per decenni.

Un percorso dalla dignità cinematografica, all’altezza di quello portato avanti nel tempo dalla britannica BBC.

Così come non deve sorprendere la genesi dell’universo parallelo de I Promessi Sposi creato dal Trio. Dove c’era spazio per le grandi opere di costume, esportabili e foriere di una qualità tangibile degna dell’alto teatro, c’era anche lo spazio per sperimentare e dar vita a espressioni artistiche del tutto fuori dagli schemi.

In tal senso, I Promessi Sposi del Trio (disponibile su Raiplay) rappresenta in qualche modo il manifesto alternativo di una storia ventennale in cui la Rai diede spazio con grande libertà creativa a voci emergenti che avevano qualcosa di nuovo, davvero di nuovo, da raccontare. Il Trio, pur non rientrando nel filone cinematografico, ne incarnò lo spirito sovversivo con una qualità cristallina sul piano della scrittura, della messa in scena e dell’interpretazione.

I Promessi Sposi del Trio non furono, d’altronde, la sola espressione di tre incredibili voci comiche: andarono ben oltre.

Marchesini, Lopez e Solenghi atterrarono in tv per riscrivere le regole della comicità italiana attraverso uno stile originalissimo, in qualche modo imparentato con la tradizione inglese dei Monty Python (fin lì pressoché inedita nel nostro Paese). E la combinarono, al pari dei colleghi britannici, con l’alta scuola teatrale italiana che si sublima in una comicità dirompente e carismatica, impregnata di un elegante surrealismo, picchi grotteschi spiazzanti e respiri retrò di anticonvenzionale avanspettacolo.

Una comicità alta, per tutti. Non ancorata a un certo snobismo ma popolarissima, alla portata di chiunque.

Il talento pazzesco dei tre artisti fenomenali coinvolti, interpreti di decine di personaggi e di ogni aspetto legato alla realizzazione del prodotto, ha quindi valorizzato un’opera d’arte post-moderna curata nei minimi dettagli, dotata di una dignità notevole. Uno sceneggiato all’altezza dei migliori esempi possibili, ma declinato con una chiave divertente e debordante, a tratti irresistibile.

Risultato? La scommessa del Trio, in quel momento all’apice di una carriera ricca di grandissimi successi televisivi e teatrali, si rivelò a dir poco vincente: la rivisitazione molto creativa de I Promessi Sposi attrasse una media di 14 milioni di spettatori per cinque indimenticabili serate, con picchi impensabili da 17. Numeri impossibili, oggi. E lo erano già allora, specialmente per un prodotto comico che mirava a canzonare un pilastro della nostra cultura con uno stile avveniristico, utilizzando stilemi e meccanismi ancora attuali.

Per dire: quanto c’è del Trio in Valerio Lundini? Più di qualcosa: non un’eredità, ma un’innegabile eco. Lo stesso si può dire di diverse serie tv in circolazione negli ultimi mesi. Le period comedy 1670 o Dick Turpin, per esempio. Per non parlare dell’acclamatissima Cunk on Earth: il gusto per la comicità surreale è immortale e si rinnova sotto svariate declinazioni.

I Promessi Sposi del Trio hanno quindi abbattuto le frontiere narrative della tv a cui si era abituati, pur in continuità con la storica tradizione. Sono approdati in un’intelligentissima meta-televisione dove Gullit e Andreotti si affiancavano a Renzo e Lucia; Pippo Baudo interpretava un bizzarro Pennellone, la monaca di M – oooooo – nza aveva i baffi e indossava un casco, Wanna Marchi vendeva un unguento contro la peste, Don Abbondio abbaiava e Manzoni disponeva di una segreteria telefonica accanto alla sua tomba

Non ci dilungheremo oltre sulle centinaia di trovate racchiuse nelle cinque ore abbondanti di visione: raccontarle non renderebbe a sufficienza l’idea.

Non tutti, però, apprezzarono: una certa intellighenzia, arroccata all’interno di vecchi modelli ormai superati, ritenne oltraggioso l’affronto nei confronti di Manzoni, considerato addirittura “vilipeso”. Altrettanto si può dire a proposito delle diversificate incursioni nel campo religioso, ricorrenti nella poetica comica del Trio e capaci di ironizzare senza mai ridicolizzare. Le polemiche, francamente, furono fuori luogo: lo stile dei tre è elegante, ricercato, diretto e incisivo, mai volgare, umorale né tantomeno irrispettoso. Per dirla con le parole di oggi, già utilizzate nei mesi scorsi per definire l’equilibrismo di Lundini, il Trio è stato “correttamente scorretto”: la loro versione de I Promessi Sposi è sì spregiudicata e scanzonata, ma è allo stesso tempo un appassionato omaggio sui generis a un’opera letteraria fondamentale.

Insomma, benché siano passati trentaquattro anni, pare che ne siano trascorsi molti meno. Ma allo stesso tempo molti di più.

Se da un lato l’opera, pur necessitando oggi di ritmi diversi, resta estremamente valida e sembra aver anticipato tempi che nessun altro ha saputo interpretare con pari efficacia, dall’altro viviamo in un mondo così diverso che rivivere quell’esperienza sembra quasi alieno.

Un’esperienza oggi irripetibile, ed è un peccato: in un contesto dove la preparazione, il gusto e la capacità di osare sono sempre più subordinate a esigenze socio-commerciali che sviliscono le qualità artistiche e creative degli interpreti, non si può fare a meno di pensare quanto sarebbe stato bello vivere in un’era in cui potesse essere ancora possibile realizzare qualcosa del genere a questi livelli. Ridere con la mente, prima che con la pancia. E avere ancora a disposizione un servizio pubblico che faccia il servizio pubblico. Magari grazie alla visione lucida e al genio di talenti unici e irripetibili. Talenti come quelli del Trio, protagonisti di una delle pagine più belle nella storia della televisione italiana.

Purtroppo, però, questo matrimonio non s’ha (più) da fare.

Antonio Casu