È molto strano ripensare al 2020, indimenticabile e surreale anno che oggi sembra così lontano, in cui una pandemia mondiale ci ha imprigionato nelle nostre case, impedendoci di uscire, socializzare, vivere liberamente la nostra vita. Zerocalcare, che ha un dono innato per la narrazione a prescindere dal mezzo che usa (come abbiamo visto in Strappare lungo i bordi), ha raccontato brillantemente nella sua serie di corti animati intitolata Rebibbia Quarantine il periodo del lockdown, degli sconvolgimenti che ha portato, delle situazioni che ha creato e degli stati d’animo che abbiamo provato in un momento distopico che non pensavamo mai di affrontare. Già nella sigla di Giancane possiamo ritrovare quell’ipocondria generale che ci assalì tutti all’epoca:
E adesso cosa farò?
Son certo che morirò
In questa stanza di merda, non a casa mia.
La fame d’aria che sale
L’ansia cresce e fa male
Lingua asciutta, è partita la tachicardia
La quarantena viene vista attraverso i suoi occhi, ossia quella di una persona comune costretta in una situazione fuori dall’ordinario, trasformando un racconto personale in una storia della privazione che riguarda ognuno di noi. O almeno, di tutti coloro che hanno avuto il privilegio di averla trascorsa a casa e non nelle camere di un ospedale, attaccati al respiratore nella speranza di sopravvivere. Ed ecco perché ci sentiamo i protagonisti di Rebibbia Quarantine, quasi una prova generale per Strappare lungo i bordi. Basti pensare al primo episodio, con quelle file chilometriche per fare la spesa, le occhiatacce se ci avvicinavamo troppo a quello davanti, e abbiamo pensato tutti ciò che il fumettista ha espresso con quella sua ironia pungente, ma che nasconde un disagio e un ansia enormi:
“Due ore di fila con due percento di batteria… piuttosto vado a leccare tutte le maniglie dello Spallanzani”.
Situazioni quotidiane in pandemia erano diventate problematiche, come compilare il CID a un metro di distanza, l’assurdo sospetto che le signore anziane affittassero un ragazzone con problemi mentali per saltare la fila, l’acquisto di banali ceci perché sono il “perfetto cibo apocalittico” e il fare la spesa in tempi velocissimi che portava a inserire nel carrello alimenti inutili quali i wurstel al cardamomo. Soprattutto, ripensiamo ai tanti appelli dei personaggi famosi, che ci invitavano a rimanere a casa. Ma se vivessimo in una casa di 20 mq con nonna, genitori e fratello alcolizzato come l’amica Teiera? Forse era meglio spingere sui pericoli del prendere il Covid, piuttosto che sul finto idillio della bellezza del restare a casa, che ha evitato la messa a fuoco sul problema reale di inizio lockdown.
E dopo una settimana, già non ne potevamo più, tanto che i nostri stati d’animo cambiavano ogni 15 secondi alla maniera di Zerocalcare in Rebibbia Quarantine.
Mentre il telefono ci permetteva di mantenere una piccola parvenza di socialità, ci costrinse contemporaneamente a essere sempre reperibili perché, dato che eravamo chiusi nella nostra abitazione, non potevamo inventarci scuse per non rispondere. I meme non funzionavano più, l’appuntamento alle 18 sul balcone era diventato noioso e le strade erano dominate da anziani che, invece, sarebbero dovuti rimanere a casa per la loro fragilità. In tutto ciò germogliava dentro di noi la disperazione nel non vedere la fine della pandemia, con la consapevolezza amara che anche per “annatte a butta’ dar ponte d’Ariccia” sarebbe servita l’autocertificazione.
Allo stesso tempo, però, iniziava a salire l’angoscia di ciò che saremmo stati alla fine della quarantena, quando avremmo dovuto riprendere quelle vite impicciate che avevamo messo in pausa. Perché, costretti a confrontarci con noi stessi, abbiamo scoperto di essere a cocci.
Già, i cocci. Quelli che rimangono da raccogliere dopo i buoni propositi traditi, come svegliarsi presto, mangiare sano e lavare i piatti subito dopo pranzo. E un groppo è fermo non solo nella gola di Zerocalcare in Rebibbia Quarantine, ma anche nella nostra, sottoforma di quel chiodo che la trafigge. Lì sono rimaste imprigionate quelle parole che ci rivelano e che non possiamo più negare. Che faremo, quando l’epidemia finirà e le case non ci proteggeranno più, con questa nuova verità? Perché, una volta fuori, bisognerà fare i conti con chi non si è salvato, con un sistema che non ha funzionato e una quotidianità completamente da rivedere.
Così Rebibbia Quarantine ha scavato dentro di noi, costringendoci a fare i conti con la solitudine e la fragilità che tanto cerchiamo di ignorare.
Allora, abbiamo vissuto il lockdown alterando la realtà attraverso il “filtro quarantena”, che ci spingeva a chattare con persone che, in condizioni di normalità, avremmo di certo evitato. E rimanevamo a parlarle con questi pseudo-sconosciuti fino all’alba, facendoli confidenze profonde che mai ci saremmo sognati di fare in precedenza. Con il rischio di adescare un Matsugoro, ovvero il pesce che fa penare Sampei. Ma cosa succederà a queste relazioni costruite solo per allentare la noia della prigionia? Semplice: rimarranno relegate a una dimensione digitale, perché non avremmo né il tempo, né la voglia di incontrarsi dal vivo, usando ogni scusa possibile per evitare l’incontro.
Del resto, prima o poi, il filtro sarebbe caduto e l’effetto della “sbronza sociale” terminato con l’allentamento delle restrizioni, portandosi dietro anche quel desiderio di comprensione ed empatia che necessita un’energia tale che, però, non saremmo disposti a spendere.
Un piccolo spiraglio di normalità, come il poter andare a correre, bastò per riportare l’egocentrismo e l’egoismo che non ci fa immedesimare nel prossimo, non pensando che anche lui è una persona con i suoi problemi e la sua esistenza incasinata. È con l’episodio della corsa che l’autore di Strappare lungo i bordi ci porta a riflettere con una semplice e impattante battuta:
“Ma se vedi due che intruppano, se pensi che te puoi impiccia, ma non è meglio se chiedi se va tutto bene prime di rompere il c***o?“
Senza contare che Rebibbia Quarantine svela una verità che non avremmo voluto mai sentire: la disuguaglianza sociale era presente durante il lockdown. L’impossibilità di uscire di casa e di non poter andare a lavorare ha creato divisioni a ogni livello; c’è chi viveva normalmente, chi bene o male sopravviveva e chi a stento riusciva a mangiare. Per questo, alla fine dell’ultimo episodio – sì, quello in cui Conte raccontava qualsiasi cosa (dalla formazione del Foggia di Zeman alla ricetta della Carbonara Vegan) prima di annunciare l’inizio della Fase 2 – eravamo tutti Zerocalcare che urlava contro quelle spie che hanno puntato il dito contro chi usciva, senza sapere il perché lo facesse.
È un lavoro egregio quello di Zerocalcare, così come lo sarà quello di Strappare lungo i bordi. Confrontandosi con sé stesso e analizzandosi introspettivamente, racchiude con ironia amara tutto quello che abbiamo provato in quei mesi di chiusura: la rabbia, la speranza, la noia, l’angoscia, l’invidia e via dicendo. E forse, ripensando ai decreti, alle videochiamate di gruppo, al governo in confusione, ci dovremmo soffermare sul messaggio potente di Rebibbia Quarantine, chiedendoci: ma quel senso di solidarietà dov’è finito?