Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul finale di 1994
Bistrattiamo la serialità italiana al punto da non saper più riconoscere un prodotto valido neanche quando ci passa davanti. La bistrattiamo a buona ragione perché la tendenza generale, dileggiata genialmente dieci anni fa da Boris, è ancora oggi più che negativa. Ma “un’altra tv” è davvero possibile, e per fortuna i nobili esempi, provenienti soprattutto dalla florida scuderia Sky e da una rinnovata Rai che sa andare ben oltre le investigazioni di Don Matteo per buttarsi tra le braccia di un capolavoro di Elena Ferrante, non si contano più con le dita di una mano.
La serialità italiana non è solo faccette basite o tarallucci col vino, e tutto sommato non lo è mai stata. Ma le faccette basite sono talmente tante da farci sentire la puzza sotto il naso anche quando l’Italia sa essere maestra o almeno all’altezza di chi segna il cammino in giro per il mondo. Succede allora che 1994 passi quasi in sordina. Tanti l’hanno vista, tanti l’hanno apprezzata, qualcuno l’ha persino amata. Ma quanti ne parlano oggi, a pochissimi giorni dalla messa in onda del finale? Pochi, pochissimi. Nessuno, o quasi.
Certamente molti meno di quanti ne avrebbe meritato. Perché 1994 non è la serie definitiva ed è ben distante da una definizione anche solo vaga di capolavoro, ma è un progetto impregnato di coraggio con una miriade di pregi. Prima di tutto quello di aver saputo mettere da parte molti degli abbozzi stereotipati di 1992 e 1993, almeno finché non ha buttato dentro i soliti stucchevoli triangoli amorosi di cui avremmo fatto volentieri a meno e gli strabusati espedienti narrativi “troppo italiani” (vedasi la voce “gravidanza indesiderata”). Perché sì, 1994 è “molto italiana” in vari momenti, ma è anche “finalmente italiana” in tanti altri.
Come possiamo accontentarci di tarallucci e vino in salsa seriale quando abbiamo alle spalle una sterminata tradizione cinematografica (e televisiva, grazie a un’infinità di sceneggiati che andrebbero riscoperti una volta per tutte) che ha portato in alto la bandiera italiana nel mondo? Ce lo meritiamo, Don Matteo. Ma ci meritiamo anche il giovane papa di Sorrentino, il Liberi Liberi di Romanzo Criminale e “‘o perdono pigliato” di Gomorra. E sì, ci meritiamo anche Bukowski e Smaila tra Berlusconi e Bossi, sul viale del tramonto di un governo decaduto in pochi mesi e di un weekend col morto a Villa Certosa.
Il riferimento è ovviamente all’episodio più folle degli otto che hanno chiuso la “Trilogia di Tangentopoli”, il quinto. Un esercizio di stile spiazzante e perfettamente inserito nel contesto seppure ne resti fuori in modo esplicito. Una parentesi cinematografica che ha messo in scena efficacemente l’iconico sbarco a Villa Certosa del Senatùr in canottiera nell’estate del 1994, intenzionato a far cadere il primo governo Berlusconi salvo poi tornare sui suoi passi (per qualche mese). Uno snodo chiave nella storia della neonata Seconda Repubblica, inscenato sullo sfondo di una vicenda grottesca fittizia che fatto focus su un collaboratore di Berlusconi come tanti altri, morto come tanti altri nell’indifferenza generale.
Il citazionismo dominante, seppure non sempre efficace, contribuisce a coinvolgere e divertire portando ogni singolo personaggio in una nuova dimensione, surreale e a tratti sorrentiniana, dando un respiro differente alla serie. La miglior espressione possibile delle potenzialità mai espresse fino in fondo da un prodotto che da lì in poi ha saputo chiudere bene il cerchio. Il cambio di marcia, unito alla scelta felice di ridurre il numero di trame e confinarle all’interno di episodi monotematici dagli intrecci convincenti, ha reso più che credibile l’operazione 1994. E a beneficiarne ne è stato anche quello che è sempre stato l’anello debole, il suo protagonista.
Privato di mordente fin dal banale nome scelto, Leo Notte, “nato da un’idea di Stefano Accorsi“, si è trasformato in 1994 in un personaggio vero che ha scavato più a fondo nella sua anima e ha incarnato finalmente lo spirito di questa serie. Tra alti e bassi come sempre, ma al punto da meritare quantomeno una menzione. La sintesi perfetta della sua crescita è circoscrivibile in una citazione dello stesso Notte in 1992, ripresa dalla figlia nel penultimo episodio: “L’amore è soltanto il nome che le persone danno al vuoto che hanno dentro. Quel vuoto lì è la chiave per riuscire a vendere qualsiasi cosa“.
Notte è tutto qui o quasi, e tutta qui è la storia politica italiana della Seconda Repubblica, riassunta provocatoriamente da Scaglia nell’ultimo scambio di battute con Di Pietro, e, di conseguenza, del Berlusconi politico. Il miglior personaggio di 1994, per ampio distacco. Interpretato sontuosamente da Paolo Pierobon, al quale va il merito innegabile di aver messo da parte la solita macchietta bagagliniana di Berlusconi, tutta barzellette e Bunga Bunga, per dare vita a un personaggio complesso dai mille volti, multidimensionale e intrigante, dotato finalmente di una buona dose di realismo.
1994 vince e convince soprattutto quando mette al centro della narrazione i personaggi reali e non quelli di fantasia. Ma lo fa anche col timeskip finale che ci ha catapultato direttamente nel 2011. Non sarebbe stato semplice per nessuno passare in disinvoltura dalle giacche dal gusto sovietico di Occhetto alle paillettes della Castello passando in poche puntate attraverso Franco Baresi, un sottosegretario agli Interni omicida, un D’Alema un po’ troppo “freddo” e una Pivetti un po’ troppo algida per arrivare a Casaleggio e ai primi vagiti del Movimento Cinque Stelle, ma la serie è riuscita nell’impresa. Raccontando una storia del passato che del passato non è nel perenne ritorno al futuro della politica italiana.
Una storia di cui avevamo bisogno, per capirci un po’ meglio. E per aprire gli occhi sulla cronaca politica odierna che volenti o nolenti ci invade quotidianamente. Un’operazione fondamentale che ha saputo mantenere (per molti versi) un’accettabile obiettività nella narrazione, al punto da far passare in secondo piano le faccette basite, che comunque ci sono, e i soliti limiti “molto italiani” che 1994 porta con sé. In secondo piano, senza avere la puzza sotto il naso. Perché un prodotto italiano non è necessariamente brutto o poco interessante anche quando ha dei difetti e non raggiunge le vette dei masterpiece della serialità nazionale contemporanea.
Ricordiamolo, prima di skippare o dimenticare a prescindere le nostre serie tv: può sembrare strano, ma essere italiani non è sempre un male.
Antonio Casu