ATTENZIONE: l’articolo potrebbe contenere spoiler su A Killer Paradox, la serie coreana di Netflix.
Esiste un confine tra punizione e giustizia? Un limite oltre il quale la vittima cessa di essere vittima e diventa invece un carnefice? La linea di demarcazione sembra apparentemente netta, in realtà è tutto molto relativo. A Killer Paradox è un dramma coreano che, attraverso una scrittura solida e personaggi ben stratificati, si interroga e ci interroga sul relativismo morale e le sue conseguenze. Esiste una frontiera oltrepassata la quale il bene smette di essere bene e diventa male? Dov’è il confine tra ciò che è lecito e ciò che è invece giusto? C’è qualcosa che va al di là la giustizia? Un sentimento che sfocia oltre e trova appagamento nella vendetta, nel castigo, nel regolamento di conti? Il k-drama scritto da Kim Da-min e diretto da Lee Chang-hee – tratto dall’omonimo webtoon di Kkomabi – si immerge in questo dilemma morale e cerca di cavarne fuori una storia di rivalsa, supereroi oscuri, di morbosi legami psicologici, omicidi efferati e tanto dark humor. Non è una commedia nera e neppure un horror scabroso, ma A Killer Paradox ruba elementi sia a un genere che all’altro. Costruita su otto episodi, la serie Netflix prende piede dopo le prime due o tre puntate e poi accelera, accendendosi all’improvviso e regalandoci una trama divertente, appassionante e ricca di suspence, da guardare fino in fondo per sciogliere ogni dubbio (anche se forse l’intento degli autori è proprio quello di lasciarli tutti sospesi, i dubbi).
A Killer Paradox era uno dei k-drama più attesi del 2024.
È ormai noto come Netflix abbia scelto da tempo di puntare sulle serie coreane, ancor di più dopo lo straordinario successo di Squid Game, di cui la piattaforma ha prodotto anche Squid Game – La sfida, un reality particolarissimo che è stata una sfida vinta. Tra gli show in arrivo nel corso di quest’anno, c’era anche A Killer Paradox, con Choi Woo-shik, Son Suk-ku e Lee Hee-Jun tra i personaggi principali. La trama è stuzzicante e rimanda a un filone narrativo di cui ci sono tantissimi esempi nella cinematografia occidentale. Lee Tang è un giovane studente annoiato dalla vita universitaria che, per non pesare ancora sulle spalle dei genitori, va a lavorare in un minimarket. Una sera, si imbatte in due clienti ubriachi che, finito il turno alla cassa, ritrova all’angolo della strada. Dopo uno scontro fortuito con uno di loro, le cose sfuggono di mano. Lee Tang, stufo di essere quello che subisce, si difende con un martello e colpisce il suo aggressore alla testa, provocandone la morte. Sotto shock, il ragazzo metabolizza poco alla volta, tra sensi di colpa e istinti suicidi. Qualche giorno dopo però, si scopre casualmente che la vittima di Lee Tang non era esattamente quel che si dice “uno stinco di santo”, ma un omicida con identità falsa che si spacciava per un onesto lavoratore. I sensi di colpa di Lee Tang non spariscono del tutto, ma si attenuano. È una colpa così grave quella di aver strappato alla vita un criminale che aveva commesso una serie di omicidi efferati? La questione sembrerebbe apparentemente chiusa e invece, qualche giorno più tardi, si ripresenta la stessa dinamica: il protagonista, in situazioni di pericolo o minaccia, sente una specie di impulso violento che lo porta ad assassinare sconosciuti con un passato alle spalle non proprio limpido. Ladri, killer, stupratori, strozzini finiscono sotto la mannaia di Lee Tang, boia per caso in un thriller tragicomico in cui il karma sembra ribaltarsi e dare ai “cattivi” la punizione che meritano.
Si può però sfuggire per sempre dalle proprie azioni? Non c’è un castigo anche per chi si innalza a giudice e stabilisce chi merita di vivere e chi di morire?
Lee Tang, grazie all’aiuto di un nerd con la passione per i supereroi, scopre di avere un talento particolare nell’individuare i “cattivi” e consegnarli alla morte. È un vero e proprio superpotere, come le ragnatele di Spiderman o la forza sovrannaturale di Superman. Lee Tang è una specie di The Punisher, un giustiziere della notte che spazza via i cattivi dalle strade sporcandosi le mani di sangue nella convinzione di aver salvato vittime innocenti e inconsapevoli. A Killer Paradox ha qualche elemento in comune con The Unbreakable, il film del 2000 in cui Bruce Willis scopriva di avere una forza fuori dal comune e la strana capacità di riuscire a “vedere” le malefatte delle persone con un semplice contatto fisico. Ma sulle tracce del protagonista della serie coreana si mette subito il detective Jang Nan-Gam (Son Suk-Ku), ostinato nella sua ricerca e spinto anch’egli da un forte desiderio di vendetta. Pareggiare i conti sembra essere il leitmotiv che unisce tutte le storie di A Killer Paradox. I personaggi hanno dei background particolari alle spalle. Ciascuno di loro ha sofferto in passato e prova a prendersi una rivincita sulla vita, reclamando una specie di risarcimento che potrebbe riportare le cose al giusto posto, ripristinando il karma. La trama di A Killer Paradox si fa ancora più interessante quando compare Song Chon (Lee Hee-Jun), un ex poliziotto assurto a giustiziere della città, obbediente solo alla sua perversa morale. Sembra delinearsi una specie di gerarchia dei cattivi nella serie coreana. In realtà, si tratta solo di scelte morali, alcune più pesanti di altre, che accomunano tutti i personaggi e li collocano sotto lo stesso cielo, esposti al giudizio (netto?) di li chi osserva.
Il dilemma morale è il filo sottilissimo su cui si incammina dall’inizio la serie Netflix.
Una serie che ha una partenza a combustione lenta, che sembra solo uno dei tanti drammi coreani un po’ lugubri e con troppe visioni oniriche, ma che dopo i primissimi episodi decolla, facendo affidamento su una scrittura compatta e degli archi narrativi che si concludono alla fine in maniera abbastanza soddisfacente. Non è solo il paradosso morale a occupare lo spazio di A Killer Paradox. La serie si sofferma anche sull’apatia e la noia che spingono alcuni giovani a voler dare una svolta alla propria esistenza, salvo poi rinunciarvi per pigrizia o per assenza di stimoli. Questa serie potrebbe rientrare tra le migliori 10 coreane attualmente presenti su Netflix. Quello dei k-drama è un catalogo che si va riempiendo di show ogni volta più interessanti, con personaggi affascinanti ai quali affezionarsi e dinamiche complesse che vanno via via sbrogliandosi. Alcune scelte registiche di A Killer Paradox potrebbero lasciare perplessi se non fossero funzionali ad abbattere il confine tra il mondo di dentro dei personaggi e quello di fuori. Flashback, visioni, sogni e paure prendono vita sullo schermo confondendo chi guarda e trascinandolo nei dilemmi esistenziali dei protagonisti, così aggrovigliati e cupi da poter trovare forma solo attraverso allegorie oscure e tetre. A Killer Paradox è dunque un altro di quei k-drama da aggiungere alla lista del catalogo, da guardare all’inizio con un po’ di pazienza, ma pronti a lasciarsi trasportare dopo appena qualche puntata.