*Attenzione, seguono spoiler della terza e ultima stagione di After Life, la serie tv di Ricky Gervais in streaming su Netflix”
Sono passati quasi tre anni dall’uscita della prima stagione di After Life. Era il 2019, la parola pandemia non era entrata ancora nel lessico quotidiano e la nostra preoccupazione più grande era capire dove fosse andato a finire Bugo. In appena due anni il mondo è cambiato. Ma non After Life, che è rimasta la stessa di sempre. Tony è ancora arrabbiato, cinico e incapace di elaborare il lutto. Anne (Penelope Wilton) siede ancora su quella panchina, ma ha un nuovo amico. I video di Lisa (Kerry Godliman) continuano a scorrere senza tregua. Il padre è sempre morto, ma in questa stagione un altro anziano del The Autumnal Leaves Care Home ha preso il suo posto. La cagnetta Brandy (Anti) sorveglia vigile e premurosa il suo padrone. Arrivano nuovi membri dello staff da svezzare. Il postino è sempre un postino, la prostituta, una prostituta e la giostra dei casi umani di Tambury non accenna a smettere di girare. La terza e ultima stagione è dunque tornata su Netflix con sei nuovi episodi, e tutto è esattamente come lo avevamo lasciato. Sebbene il Covid-19 sia passato anche a Tambury, come l’ennesimo imprevisto seccante e inevitabile. In questa nuova stagione, apparentemente, non succede nulla. La botta al petto arriva dopo, quando finisce la magia e ci ritroviamo, da soli, a gestire quell’enorme bagaglio emotivo che ci siamo tirati appresso per tre capitoli. Tony ci ha riempito la valigia, e ora ci tocca svuotarla e sistemare tutto nei giusti anfratti. È difficile capire cosa abbiamo visto nella serie tv creata, scritta, prodotta, recitata e diretta da Ricky Gervais, al meglio delle sue capacità comiche. Quel che è certo è che si tratta di un addio, un addio perfetto.
It’s ok not to be ok
Una comedy-drama che ha saputo fermarsi al momento giusto. Solo tre stagioni di 18 episodi, di appena 30 minuti ciascuno, che come una pozzanghera piccolissima, posta sul ciglio di una strada piccolissima, riescono a riflettere la nostra paura più grande. Una pozzanghera anonima, stretta e informe, dove però riusciamo a entrare tutti quanti. Dopo la morte di sua moglie, il giornalista del Tambury Gazette ha creduto di non avere più nulla da perdere e ha smesso di preoccuparsi delle conseguenze delle sue azioni. La mancanza di voglia di vivere gli ha permesso di dire e fare tutto ciò che voleva; che tutti desidereremmo dire e fare. Così per tre stagioni, Tony Johnson ci ha dato il permesso di arrabbiarci insieme a lui. Come un Caronte, apatico e alcolizzato, ci ha condotto attraverso le sette fasi dell’elaborazione del lutto; perché tutti quanti siamo in lutto per qualcuno o per qualcosa. Dallo shock alla negazione; dalla rabbia, la contrattazione alla depressione, finalmente, nella terza stagione arriviamo all’accettazione e alla speranza.
Tony però non accetta la morte di Lisa. Non ricomincia a vivere. Non si innamora dell’infermiera Emma (Ashley Jensen); anzi la lascia andare, con uno squisito gesto altruistico. Tony accetta che va bene non stare bene, soprattutto dopo aver perso qualcuno. Va bene essere arrabbiati. Va bene rompere le cose, insultare gli altri facendo le pernacchie sulla pancia del nostro amico, e voler farla finita. Il finale ci lascia così, con questo particolarissimo messaggio di speranza. Senza melodrammi, senza discorsi strazianti. Come ha dichiarato il comico inglese a Kiss FM UK:
Solo alla fine dell’ultima stagione realizzi che è sempre stata una storia d’amore, e che bisogna avere speranza. After Life, in fondo, risponde a questa domanda: se perdi tutto, ha ancora senso vivere? Io credo di sì.
Una conclusione perfetta, elegante e bilanciata, ma certa critica non capisce perché
La nuova stagione è appena uscita e la critica internazionale ha già sguainato la spada. E colpisce per ferire. The Telegraph concede ad After Life una sola stella su cinque mentre l’aggregatore Rotten Tomatoes ha totalizzato un misero 33% della critica (contro un 93% di pubblico). Il Times Uk aggiunge che “After Life è un enigma. Gli spettatori lo adorano e i critici non riescono a capire perché“. Independent (appena 2/5 stelle) liquida la terza stagione come: “una commedia piacevolmente cinica, ma impantanata nel sentimentalismo. Nonostante le sue buone qualità, non riesce a cogliere le corde del cuore come vorrebbe fare. I monologhi sul dolore e sulla guarigione sono dolorosamente triti, dolorosamente monodimensionali.”
CNN Entertainment sottolinea invece quanto: “i suoi temi siano diventati ripetitivi al punto che “la vita” ha chiaramente fatto il suo corso. After Life sembra ancora uno degli sforzi solisti meno riusciti di Gervais, in parte a causa dei vincoli naturali che una commedia così immersa nella tristezza deve faticare a superare. RadioTimes riflette che “La sua più grande forza è anche la sua più grande debolezza”, lamentando il fatto che sia rimasto tutto immobile. E come dargli torto. La trama non ha subito variazioni. Tambury è rimasta uguale e nessuno è andato avanti. Ed è proprio questo – a nostro avviso – la ricchezza della narrazione. La sua debolezza, piuttosto, è il suo punto di forza.
Tutto è rimasto uguale perché la vita va avanti, ma non cambia mai davvero. La realtà non è una sceneggiatura dove gli archi narrativi dei personaggi sono coerenti e progressivi. Nella vita può esserci involuzione. Ci sono pause impreviste. Buchi di trama. Fugaci attimi di felicità e momenti di rivelazione passeggera. La vita è caos, non ha senso. Siamo noi a dovergliene dare uno. Tony non è cambiato, è vero. È rimasto lo stesso, ma ora finalmente lo accettata. Accetta che la vita sia fatta così.
C’est la vie, Brandy
After Life ci dà l’addio con un regalo: non ci dice bugie. Non andrà tutto bene, un mantra che ormai abbiamo sentito fino alla nausea. Ma va bene così. Il finale di serie è la parafrasi cruda del più poetico c’est la vie. Perché tutto continua ad andare avanti, sempre. Sebbene potrebbe sembrare quasi che non cambi mai nulla. Con questa serie tv, Ricky Gervais è riuscito a trovare l’equilibrio perfetto tra commedia e tragedia, tra cringe e poesia. Un equilibrio che raramente ritroviamo in scena e che solo la realtà sa offrire. Il comico inglese ha preso uno spaccato di realtà (che potrebbe essere di chiunque) e l’ha trapianto sul piccolo schermo. Senza aggiungere nulla, perché non ce n’era bisogno. La vita è già interessante di suo:
Puoi guardare un film sui supereroi. E probabilmente sarà fantastico. Ma se senti in lontananza passare un’ambulanza, corri subito alla finestra per vedere cosa succede. Perché la vita è più importante, più interessante della finzione.
Gervais non ha scritto grandi e illuminati discorsi sulla vita. Tony, Matt, Lenny, Kath, Sandy, Pat e tutti gli altri personaggi sono goffi, sgraziati e perfino noiosi. Ma sono reali. Perfino il cane è stato scritto come se fosse vero (col quale Gervais ha ammesso di aver lavorato meglio che con certi attori). Per questo ci arrivano dritti al cuore. La vicenda che racconta non ha nulla che non sia stato detto prima. Ci sono tutti i grandi temi della vita: la morte, il lutto e il dolore. Gervais però ha tolto ogni orpello. E in tre stagioni ha racchiuso tutto, compiendo l’operazione più difficile: togliere il superfluo per lasciare scoperto il nocciolo, quello che fa male.
Tutto scorre lento, tra lacrime, medium scrittrici, imbarazzo e risate
È come se non succedesse mai nulla di significativo. Esattamente come avviene nella vita reale. Poi un giorno ci guardiamo indietro. Riguardiamo la montagna di video che abbiamo fatto quando la nostra defunta moglie era ancora qui a tagliare i “limoni con gli occhi“, e solo allora realizziamo quanto siamo stati fortunati. Come accade alla fine di ogni giornata, anche dopo ogni puntata sembra di non aver visto nulla. Invece abbiamo visto tutto, e ci sentiamo arricchiti. Perché nella vita reale i bei momenti si alternano a quelli brutti, casualmente e senza senso. Solo a posteriori riusciamo a goderci il quadro completo, in prospettiva. Gervais ha fatto quello che solo i grandi sanno fare. Ha preso il caos e gli ha dato una forma. Una forma semplice, cristallina. La forma di una commedia che però somiglia più a “una persona di neve” con un c***o a forma di carota.
Rendere l’ordinario straordinario
Ricky Gervais voleva rendere l’ordinario straordinario. Trasformare la fiction in vita. E ci è riuscito. Non è una storia scritta per emozionare, ma è una storia dove l’emozione viene impressa sullo schermo, scolpita per non farla scappare via. La viviamo brevemente, poi sfuma. Ma l’abbiamo vissuta, è questo ciò che conta. After Life è riuscita a farci ridere e piangere allo stesso tempo. Ci ha raccontato una storia, la nostra, e ci ha lasciato più ricchi di ieri. Con un bagaglio emotivo disordinato, da rimettere a posto. La dramedy racconta semplicemente il percorso di accettazione di un uomo distrutto che finalmente ha capito che non conta cosa ci sarà dopo. Se mai ci sarà un dopo. Conta ciò che c’è stato e che c’è adesso.
After Life è una preghiera laica fatta di qui e di ora. Di angeli, che siedono sulle panchine accanto a noi o che si leccano il muso prima dei croccantini. E di Paradiso, che esiste se questo serve a dare speranza a un bambino malato di cancro. La commedia rende possibile tutto ciò perché tira fuori il buono dal brutto. Ci fa ridere degli alti e bassi della vita, che si ripetono in un susseguirsi casuale e illogico. Uno shuffle di brani: ora c’è un pezzo che detestiamo, ora ci sono i Radiohead. Nella terza stagione di After Life tutto funziona, ma niente torna a posto. Le risate arrivano insieme alle lacrime in una storia che solo Gervais, e il suo team creativo, poteva concludere con equilibrio e sapienza.
Tony va via dalla festa. Guarda i suoi amici ed è felice che siano felici. Anche per merito suo, in parte. È ancora arrabbiato e per un attimo temiamo che i pensieri suicidi siano tornati. Invece si allontana, verso un paesaggio autunnale. Forse quei pensieri suicidi torneranno. Anzi, torneranno. Come tornerà la rabbia, ma anche la gioia. Poi di nuovo il dolore, e ancora la rabbia. Ora però Tony sa che è normale e che va bene così. L’importante è non dimenticarsi che al mondo non esistiamo solo noi e che possiamo fare tanto per gli altri.
Tony ha affrontato tutti gli stadi del lutto. Ora tocca a noi. Non potevamo sperare in un addio più caldo e avvolgente. Un finale insuperabile, senza gesti plateali né drammi. Solo la vita che va avanti, come sempre. Il suo percorso è concluso, consapevole del fatto che non c’è nulla da concludere, ma che dobbiamo essere solo più gentili (e dire sempre la verità, soprattutto al primo appuntamento).