Perfino un grande dolore può venire metabolizzato, superato per trasformazione grazie a una creazione artistica
Caro Lettore, se hai la fortuna e la sfortuna di aver vissuto abbastanza da aver perso qualcuno non c’è bisogno che nessuno ti spieghi Aftersun. A te mi rivolgo in questo articolo, a te e a qualcun altro che non puoi conoscere e non potrai mai conoscere, non perché voglia spiegarvi Aftersun ma perché ho bisogno di metabolizzarlo, Aftersun. E allora ti chiedo di ascoltarmi, di assumerti questo ruolo impegnativo e tremendo: sentire quello che ho da dire perché ho solo te a cui dirlo. Perdona questo espediente di cui ti rendo complice ma è sempre stato più facile per me parlare con qualcun altro che con me stesso e aiutare qualcun altro che me stesso. E allora fingi che io stia aiutando te e tu, nella tua lettura, finisci per aiutare me.
Ci sono opere, canzoni, film che sembrano semplicemente apparire dal nulla nel momento perfetto, nel momento peggiore, e trasformare il dolore in dolore condiviso e poi in qualcosa di più, in qualcosa di altro. Aftersun si è straordinariamente sovrapposto a questo momento della mia vita e insieme al film l’ha fatto un autore che pensavo non potesse essere più lontano da questo momento. Un autore che ha affiancato in dolori ben peggiori anche Hermann Broch, imprigionato dai nazisti e privato di quasi ogni speranza. In questo artista, come in Aftersun, c’è qualcosa di personale eppure universale, una memoria intimissima che però si perde nel mare tremendo, per bellezza e orrore, dell’essere umano.
Broch ha vissuto talmente tanto l’umanità dell’autore, di questo uomo così lontano e impalpabile ma nel contempo vivo e fraterno, che ne ha scritto una biografia romanzata. Una storia che si condensa in pochi attimi, in poche memorie che riaffiorano prima della morte. Egli rimembrava questa vita d’addio che giaceva ormai alle sue spalle nella penombra del fiume e della poesia, ed egli oggi sapeva, più chiaramente che mai, di essersi addossato tutto questo per amore di quella speranza. Nessuno sembra averlo conosciuto meglio di Broch, nessuno sembra averlo conosciuto meglio di me, di noi, di ognuno che lo legga e leggendolo lo comprenda.
Non sappiamo quasi nulla della sua biografia eppure sentiamo di sapere così tanto di lui.
Sentiamo di sapere così tanto di questa regista esordiente, di Charlotte Wells, che ha composto un film talmente intimo da rischiare di essere autoreferenziale eppure così universale da farci sentire di conoscerla più di una sorella. Questi due fratelli ho avuto al mio fianco, paralleli, mentre vedevo Aftersun e leggevo, mentre ascoltavo e mi immedesimavo. Scrive Alessandro Fo di questo nostro fratello e inconsapevolmente anche della nostra sorella:
Da vicende di cronaca che lo avevano travolto, […] ha come “staccato”, distillandolo, il nucleo emozionale. Poi lo ha calato in altri “eventi”, nelle trame di un mondo mentale tutto suo, tra l’immaginario e l’allegorico: e così ne ha esaltato l’universalità. Ora ne partecipa ogni frammento del paesaggio, ogni scheggia viva o inanimata del suo nuovo cosmo tra le pagine: e, pure in un teatro artificiale, quel nucleo resta autentico, incandescente come alle origini, e trova la sua via per così dire “naturale” di riproporsi: senza avvilirsi a convenzione.
Aftersun nasce da un’esigenza “inutile”. Nasce da un dolore. Il dolore per un padre che non c’è più e per una memoria che sembra rarefarsi nel cielo incerto del tempo che scorre via e tutto cancella. Sophie, in questo film, è insieme adulta e bambina: è madre, ha trent’anni, come l’età che aveva suo padre quando lei era solo una bambina. E ha tredici anni come al tempo di quel viaggio in Turchia, dell’ultimo ricordo paterno.
A quella memoria ritorna.
Si cala in quel ricordo grazie ai vecchi filmini con cui aveva immortalato la vacanza. Ma lo fa anche e soprattutto grazie alla telecamera con cui Charlotte gira il film. Su due diversi livelli si manifesta così l’esigenza di cristallizzare il tempo e il ricordo, l’amore e l’affetto. Charlotte Wells crea un teatro artificiale che è il film stesso, prodotto di finzione fatto di attori, di scenografie, di fari e di riprese. Eppure, in questo ambiente artificiale pone qualcosa di incredibilmente vero, reale, naturale. E come un dio, così la regista, dà vita alla materia inanimata e tutto si colora e tutto prende senso e tutto diventa reale, naturale. Questo qualcosa è l’emozione.
Là dove non arrivano i filmati di Sophie, dove non arrivano le tante polaroid, brandelli sparsi di un ricordo reale, flash istantanei di un tempo che fu, arriva la regista che tutto tesse insieme, che dà organicità a quelle memorie discontinue e che dà senso là dove il senso non c’è. Wells trasforma così un dolore personale, un fatto di cronaca insignificante per chiunque altro, in qualcosa di universale, calandolo nelle trame di un mondo mentale tutto suo che è il cinema, che è la letteratura, che è, insomma, l’arte. Non sappiamo cosa accada a Calum-Paul Mescal, se muoia suicida e/o sconfitto da un male interiore o semplicemente si allontani dalla figlia. E non è necessario saperlo. Perché non siamo nella cronaca, siamo nell’arte. E come non sappiamo dire nulla di biografico su quell’autore tanto umano e vicino così non sappiamo dire nulla della storia di Charlotte Wells. Eppure sentiamo immancabilmente di conoscere intimamente entrambi.
Charlotte/Sophie crea un mondo nel quale la memoria non potrà spegnersi mai: estrae dalla sua esperienza personale un dolore, una separazione, una nostalgia, un nucleo emozionale che rende universale attraverso il film e così metabolizza e salva se stessa e il suo ricordo. E così ci aiuta a metabolizzare e salva noi e le nostre stesse memorie.
Se anche rimanesse solo questo di infinite vite e mondi, di tanto consumarsi nel tempo, sarebbe bellissimo.
Per capire l’inizio e il finale di Aftersun dobbiamo avere a mente tutto questo.
Negli ultimi, intensissimi minuti, all’immagine di una polaroid (ennesimo frammento del ricordo) segue la riprese dell’ultimo ballo tra padre e figlia mentre in sottofondo si gonfiano e si elevano le voci di David Bowie e Freddie Mercury. Il ballo di allora si sovrappone e confonde con il ballo di adesso, un ballo che non può essere reale, in cui a essere cresciuta è solo Sophie, non suo padre. I continui flash della sala da ballo rappresentano questa frammentarietà del ricordo, questo lento procedere verso l’inconsistenza di una memoria che col tempo si fa sempre più buia, incerta e sfumata.
In questo meta-spazio sospeso nell’interiorità della regista c’è lo sfogo di una figlia abbandonata, la rabbia che prova chiunque abbia patito una perdita. Perché il sentimento che proviamo più di ogni altro, dopo la sorpresa e il vuoto, è la rabbia. Anche quando siamo consapevoli che non c’è colpa. Anche quando sappiamo che non c’è colpevole. Vorremmo potercela prendere con chi se n’è andato per il semplice fatto che non c’è più.
La musica si eleva ancora ma finisce per incrinarsi, incupirsi: non è l’Under Pressure che siamo abituati a sentire. Sembra distorta, lamentosa, lacerante. E di colpo ci rendiamo conto che tutto è cambiato, che non è più la stessa canzone ma che è una canzone completamente nuova. Oliver Coates, curatore della colonna sonora di Aftersun, altera la melodia, espunge dalla conclusione la ripetizione anaforica “Under pressure, under pressure, under pressure” e scompare pure il ritmo andante: tutto cambia. La canzone adesso non parla più dell’opprimente difficoltà di essere all’altezza delle aspettative ma di nostalgia, rabbia e perdita:
Non possiamo darci un’altra possibilità?
Perché non possiamo dare all’amore un’altra possibilità?
Perché non possiamo dare amore, dare amore, dare amore, dare amore?
Perché l’amore è una parola così antiquata
E l’amore ti sfida a prenderti cura delle
Persone ai margini della notte
E l’amore ti sfida a cambiare il nostro modo
di prenderci cura di noi stessi
Questo è il nostro ultimo ballo
Questo è il nostro ultimo ballo
Questi siamo noi.
Non più “Questi siamo noi sotto pressione” ma semplicemente “Questi siamo noi”.
Le parole sono quasi le stesse eppure tutto è cambiato, come ci insegna Borges nel suo Pierre Menard o Johnny Cash in Hurt, canzone identica nel testo eppure completamente diversa nei contenuti rispetto all’originale dei Nine Inch Nails. A cantare non sono più David Bowie e Freddy Mercury ma Sophie e Calum, rabbia e risposta, dolore e ricordo. Tutto si cristallizza in quell’istante, in quel meta-spazio (che è ricordo) in cui una figlia ormai adulta può ancora incontrare suo padre e sfogare tutta la sua rabbia: Perché non possiamo dare all’amore un’altra possibilità? Tutto è fermo lì, a quel ballo, a quel ricordo: Questo è il nostro ultimo ballo // Questo è il nostro ultimo ballo // Questi siamo noi. E inevitabilmente, finita la vacanza, finita la pellicola, è solo in quel meta-spazio che Charlotte Wells può ricongiungersi con suo padre. Ed è in quel meta-spazio che Calum, difatti, (ri)entra chiudendo il film.
Eppure anche questo si perderebbe -come quelle memorie d’infanzia di un uomo che parla di frondosi faggi, di api ronzanti e di ruscelli che invitano al sonno- se non ci fosse qualcosa. Qualcosa che salva ed eternizza il ricordo. Quel qualcosa, l’ha capito Charlotte Wells, lo capì oltre duemila anni fa Virgilio e lo capiamo noi ora, è l’arte. L’artista da vicende di cronaca che ci travolgono e consumano stacca il nucleo emozionale, lo cala in altri “eventi”, nelle trame di un mondo mentale tra l’immaginario e l’allegorico (questo è il film, questa è la letteratura) e così ne esalta l’universalità. Ora ne partecipa ogni frammento del paesaggio, ogni scheggia viva o inanimata del suo nuovo cosmo tra le pagine: e, pure in un teatro artificiale, quel nucleo resta autentico. E grazie a questa autenticità l’opera arriva fino a noi e parla a noi che siamo figli di storie diverse ma fratelli di uguali emozioni.
Diceva Proust parlando di certi romanzi: “Sono come grandi lutti momentanei; aboliscono l’abitudine, ci rimettono in contatto con la realtà della vita“. Ci tirano fuori dalla nostra routine, dal fatto di cronaca nel quale ci consumeremmo mortalmente, e ci connettono tutti insieme facendoci soffrire un momento per permetterci di vivere per sempre. Per sempre vivrà Virgilio. Per sempre ti auguro di vivere, amico mio perduto, anche se la mia penna è incerta e le mie parole tutt’altro che artistiche, anche se non sempre riesco ad arrivare ai cuori: conosco però chi sa farlo. Ed è certo grazie a loro, più che a me, che tu vivrai per sempre e forse sei vissuto sempre.
Questo è il nostro ultimo ballo
Questo è il nostro ultimo ballo
Questi siamo noi.
Ai lettori di questo mio articolo, a Federico