Stralci di memoria, frammenti di un passato che non può tornare, contraddizioni di un presente straniante. Altered Carbon si presenta (noi ve l’abbiamo introdotta qui) guardando a due diversi piani cronologici del futuro. Uno lasciato alla sola esperienza del ricordo, l’altro alla realtà di un mondo iperrealistico e ultratecnologico. Takeshi fa da tramite tra i due tempi e ci introduce all’attualità di Bay City, la disturbante metropoli in cui la Serie è ambientata.
Le memorie di una vita più piena, più vivida, più umana si sovrappongono alle immagini della tentacolare San Francisco del 2384. I livelli temporali si fondono con le tinte acide e lisergiche. Si succedono e contestualmente precedono in un ciclico balletto di cui Kovacs è protagonista. Il serpente che si morde la coda, l’uroboro che disegna l’infinito è Kovacs stesso. È l’insieme delle sue parti. Le radici che affondano nel passato da idealista e rivoluzionario che lasciano posto al presente da terrorista e mercenario.
Il dualismo investe ogni cosa e si ripropone continuamente nelle angosce soltanto accennate di un uomo che non si sente più tale.
Takeshi Kovacs è il fantasma dell’uomo che fu. Di quello “Spedi” un tempo impegnato nella lotta in nome del suo credo. Bay City è il teatro del fallimento. Il presente di una rivoluzione fallita. La terra di un consumismo nuovo, di una società ancora più classista della nostra. La critica sociale in Altered Carbon scorre sottesa tra le pieghe di una città che diventa suburra, terra di bordelli e passioni perverse. In questa realtà le coscienze espiantate dagli involucri corporei (le “custodie”) sono mercificate. I più ricchi, i Mat, possono rinnovarsi continuamente nei corpi. I poveri, la maggioranza, devono accontentarsi di ciò che lo Stato “Ha sottomano: tossici o relitti della società. E il penitenziario affitta le custodie migliori”.
Bancroft è un Mat: ha una ricchezza spropositata. Ha un monopolio totale su Bay City. Può perfino piegare la giustizia, ottenere la grazia per quello che è considerato un nemico della società, un terrorista mortalmente pericoloso. Eppure, anche lui non può possedere tutto. In lui c’è un tarlo che lo divora, un mistero che non è in grado di dipanare. Una “domanda irrisolta, il mistero che merita una soluzione, la scatola che aspetta di essere aperta”. Kovacs e Bancroft diventano così due pelli dello stesso serpente. I due volti attorno a cui si avvolge la trama di Altered Carbon.
Da un lato l’espressione di un presente che si radica nel tempo, nell’uomo di potere che come il biblico Matusalemme sopravvive alle epoche, dall’altro il passato che riaffiora nell’attualità, l’uomo di valori ormai morti, l’alienato dalla società.
Come lampi improvvisi, istantanee di un mondo immerso nella natura si fanno largo nella mente di Kovacs, nell’infanzia sospesa e negli affetti familiari ormai consacrati soltanto ai suoi pensieri. Il risveglio drammatico da ogni ricordo lo restituisce all’attualità artificiosa di un mondo in cui anche l’acqua è soltanto parvenza.
A ben guardare, però, nell’avvolgente Bay City in cui ci troviamo catapultati c’è qualcosa di estremamente familiare. Qualcosa che non possiamo fare a meno di cogliere. Ogni angolo, ogni scritta luminosa, ogni colore acido, violentemente proiettato nell’occhio dell’osservatore rievoca la straniante attualità delle metropoli contemporanee. Improvvisa e immediata ci appare l’immagine della modernissima Tokyo. L’Oriente “sviluppato” diventa modello espressivo primario in Altered Carbon. La scenografia ripropone così con disarmante capacità le contraddizioni della Tokyo dei nostri tempi.
Le infinite luci colorate dei manifesti pubblicitari, i mastodontici schermi in costante proiezione. I grattacieli, le strade intasate, la massa indistinta e brulicante della folla che si affretta per le vie. La Tokyo moderna vista nel suo insieme, nel suo cyberspazio. L’estetica cyberpunk fonde così l’hi-tech con l’underground, il sostrato alternativo, l’altra Tokyo, quella che si nasconde nella suburra dei suoi vicoli. Kovacs si cala in quella realtà, scende a fondo. La visione d’insieme si perde e ci scopriamo spersi tra le stradine malfamate e ingombri della “città vecchia”.
I kakurenbo-yokocho, le antiche viuzze-nascondino della “capitale d’oriente”, trovano così nuova e futuristica espressione.
E si ripropone allora, incessante, il dualismo che diventa fusione anche nello sfondo dispersivo e spersonalizzante in cui Takeshi Kovacs viene a muoversi. Vecchio e moderno. Antico e tecnologico. Hi-tech e underground. Luce artificiale (e artificiosa) e oscurità pullulante. Il protagonista si macchia di quella realtà, ci si immerge, la fa sua, si stordisce nel lisergico mondo in cui perde la propria identità. Rischia quasi di risultarne vittima. Il corvo di Edgar Allan Poe diventa un hotel e il suo autore un albergatore. “Mai più”, ripeteva il nero animale nella celebre poesia. “Mai più” sembra dire a se stesso Takeshi che guarda a quel passato che non tornerà. Anche lui ha su di sé una parte d’Oriente. I valori, gli ideali, l’istruzione guerriera che traspaiono in lui non possono non richiamare il bushidō, la “via del guerriero”, l’insieme dei precetti del samurai.
Takeshi è ormai un anacronismo nel mondo di Bay City: la sua lotta è perduta, la storia, scritta dai vincitori, lo ha additato come terrorista. Il suo credo non esiste più. Al samurai cyberpunk non rimarrebbe altro che il seppuku, il suicidio rituale. Eppure, il ricordo di Falconer, il suo mentore, il leader della rivolta, diventa per Kovacs una proiezione interiore, un irreale e inspiegabile sprone a vivere. “Fa’ quello per cui sei nato, ciò per cui ti ho preparato: cambia le cose”. Il mistero dietro l’assassinio di Bancroft diventa una ragione di vita. In quella “scatola che aspetta di essere aperta” c’è un senso più profondo che ancora ci sfugge ma che Takeshi nella sua capacità da “Spedi” riesce a cogliere istintivamente. “Così porterai a termine la missione”.
Dietro quel semplice incarico c’è l’adempimento di un precetto dello “Spedi”, una volontà di inseguire sempre la verità. Di mettersi in gioco e scoperchiare una realtà sottesa.
Altered Carbon in questo primo episodio fa bella mostra di sé. Ci mette di fronte un mondo distante ma nello stesso tempo irrimediabilmente attuale. Lo fa dando lustro al suo interprete, a quel Takeshi Kovacs, espressione delle contraddizioni di un futuro compromesso. Lo fa calandolo in scenografie dall’estetica cyberpunk modellata sulla distopia del romanzo omonimo di Richard K. Morgan. Il modernissimo si coniuga così con l’antico. Anzi, ci si scontra mostrando l’anacronismo di un passato inattuale ma che ritorna nel ricordo. Nostalgia e disperazione. Antico e moderno. Naturale e ipertecnologico. Kovacs e Bancroft. L’uroboro riavvolge tutto in un ciclico succedersi mentre noi ci perdiamo in quell’eternità sulle note finali di una bellissima The End di The Daughter.