Siamo alla terza puntata di American Crime Story e questo episodio è il primo in cui Gianni Versace non compare. È da qualche parte, a godersi la vita, all’oscuro che Andrew Cunanan sia là fuori, assetato di sangue. Del suo sangue.
Giocata su piani spazio-temporali diversi, la puntata si apre con la tele-imbonitrice Marilyn Miglin in trasferta a Toronto nel maggio del ’97. Il marito non è all’aeroporto ad accoglierla e, in un crescendo di tensione, in cui ogni dettaglio, ogni scena è volto a creare aspettativa, qualcosa non va.
Infatti il marito Lee è una della vittime della furia omicida di Andrew, non la prima e, ovviamente, non l’ultima. Torturato a morte, il settantacinquenne viene ritrovato nella sua bellissima casa di Chicago, accanto alla lussuosa auto d’epoca.
Impressionante l’interpretazione di Judith Light, che, nelle primissime scene iniziali, lascia il segno col suo sguardo disperatamente consapevole e, poi, per difendere le apparenze e il buon nome, sfodera gli artigli di una vera leonessa.
Abbiamo uno scorcio sulla vita di questa vittima: anziano, fattosi da solo, diventato ricco, ricchissimo, potente, inserito tra la gente che conta e, con una moglie sotto i riflettori, un padre e un marito. Il sogno americano.
Solo che dietro a quel sogno c’è un incubo, perché anche le coppie migliori nascondono segreti inconfessabili e Marilyn e Lee non sono certo un’eccezione. E Lee non è il marito, il padre di famiglia, l’uomo d’affari irreprensibile che tutti pensano.
Dall’altra parte c’è Andrew: un predatore in agguato, stanchissimo e determinato al tempo stesso, che si concede a uomini facoltosi, pronti a prostrarsi davanti a un altare, pensando che la loro colpa sia essere omosessuali, mentre Andrew sa perfettamente chi sia.
È un frutto proibito, è un’attrazione inconfessabile, è tutto ciò che si può desiderare.
Ed è al comando.
Il sogno americano è decisamente infranto, per Marilyn, per Lee, per Andrew, perfino per Gianni Versace.
Lee accoglie, abbraccia e sfama Andrew, che si muove in casa sua con sicurezza e non come un ospite, gli mostra i suoi progetti: Lee non sa, non può sapere.
Andrew rivela la propria identità, perché con Lee è spregevole, cinico e interessato solo ai suoi soldi, attua una vera e propria tortura psicologica sulla sua vittima. Ed è bravo, bravissimo nel suo gioco perverso, perché è vero che ha una missione, ma è ancora guidato da un fiume di passioni fuori controllo.
L’omicidio di Lee Miglin è crudeltà allo stato puro e, come sempre, fin dalla primissima puntata di American Crime Story, Darren Criss si conferma freddo, passionale, perverso e credibilissimo. Perfettamente in parte. Se non si becca qualche premio pesante alla prossima stagione di premiazioni sarà un vero scandalo.
La moglie, Marilyn, è un carro armato che non si ferma di fronte a nulla pur di difendere la facciata di famiglia ideale: il marito non era omosessuale, punto.
Il punto focale è trovare l’assassino, i retroscena non contano.
Difatti, a seguito della morte del marito, davanti agli investigatori non si fa tanti scrupoli a sciorinare la carriera del figlio “aspirante attore” a Hollywood. Perché ciò che conta è l’apparenza, il buon nome.
Nuovo cambio di spazio e tempo: siamo a New York, Andrew visita la boutique di Versace, che, più che un negozio, è un museo in cui i capi d’abbigliamento sono pezzi d’arte. È un Dorian Gray affamato di fama, successo, soldi, vendetta, è un mostro a piede libero, affascinante e ammaliatore: potrai anche innamorarti di lui, ma quell’amore proibito, divorante, fuori controllo, finirà per ucciderti.
Tutta la puntata è un avanti e dietro tra ora e allora, tra qui e là, tra elaborazione e attuazione di un piano, tra vittime illustri e illustri sconosciuti, come il guardiano del cimitero William Reese, il papà di Troy, che vorrebbe tanto rivedere e che finisce disteso nello scantinato del cimitero, con una pallottola in testa.
Gelida e iconica la presenza di Marilyn alla televendita in stile Mastrota: cosa le importava sul serio? Era veramente amore, il loro? O era solo innamorata delle telecamere?
“Il disonore non è così male, una volta che ti ci abitui” è la frase che dà il tono alla puntata e che lascia un alone disincantato e oggettivo su tutto quello che non può essere, non deve essere, che è meglio nascondere.