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Il coraggio rivoluzionario di American Gods

American Gods
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Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla 1×06 e la 1×07 di American Gods

Una delle abilità più geniali di un grande autore è la capacità di rendere le divagazioni funzionali ad un racconto, sviluppandolo da svariati punti di vista con soluzioni di (dis)continuità pressoché illimitate. Se qualcuno è maestro in questo senso, il suo nome è certamente Neil Gaiman. E Bryan Fuller con Michael Green, ideatori dell’adattamento televisivo di American Gods, non sono da meno. Il penultimo atto della prima stagione ha mostrato ancora una volta questa caratteristica con grande coraggio, regalandoci un preseason finale inusuale e sprezzante del pericolo. Una divagazione totale, senza compromessi. Meravigliosa, nello sviluppo. E nel raccordo col racconto, tanto coerente con se stesso quanto efficace.

Un po’ come la 1×06, sequel ideale del primo confronto tra Mr. Wednesday (ma quando arriverà il giro sulla giostra?) e Mr. World. La religione è ovviamente sempre al centro, riportandoci in due episodi alla domanda che ci facciamo da quando ci siamo avventurati in questo fantastico delirio: chi è più importante per l’altro? Il Dio nei nostri confronti? O viceversa? La risposta è fin troppo malinconica: gli dei sono morti, e anche noi non stiamo molto bene. Ma occhio alle resurrezioni, in questi casi sono all’ordine del giorno.

American Gods

Come abbiamo imparato fin dall’inizio, la morte in American Gods non è mai una condizione definitiva: è solo una delle tante variabili, un contrappasso da affrontare nel lottare per sopravvivere. Ce lo insegnano i vecchi dei a prescindere dalla forma che assumono (dal pacifico Gesù al guerrafondaio Vulcan il passo è brevissimo). Lo conferma il trasformismo dei nuovi, più capaci di adattarsi ad un nuovo mondo che avanza attraverso forme seducenti e carismatiche, e lo esprimono persino gli umani, sempre più in bilico tra amore, odio e adorazione.

L’avevamo detto a proposito della 1×04 e la 1×05 e lo ribadiamo ora: gli dei hanno bisogno di noi, ma noi pensiamo di non aver più bisogno di loro. Eppure ci plasmano, senza rendercene conto. Oppure si plasmano per avvicinarci a noi. Sennò entrambe, come nel caso di Mr. World. Il più grande mistero della fede è il non riconoscere che sia tale. L’adorazione ha lasciato spazio all’amore inconsapevole. La speranza si è trasformata in rassegnazione. Siamo soli, senza loro. E loro, senza noi, sono morti. Non stiamo bene, prendiamo la strada più lunga, ci incasiniamo la vita. La religione, un culto che sfora talvolta nell’ossessione, è un bluff che chiude i nostri occhi, una scorciatoia che ci mette al riparo dall’oblio. È associabile all’amore tra umani, una luce in fondo al tunnel che ci regala la più forte delle illusioni.

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L’ultimo punto è sintetizzato perfettamente in A Prayer For Mad Sweeney, episodio con protagoniste Essie McGowan e Laura Moon. Il percorso nichilista affrontato dalla nostra storia trova negli stessi occhi le due facce di una stessa medaglia. Dalla preghiera di una giovane irlandese che trova in un leprecauno la sua moneta si è passati alla disillusione di chi, la moneta, l’ha ingoiata e non vede altra luce divina al di fuori dell’amore per l’uomo della sua vita. Cambiano le strade affrontate, ma non mutano presupposti e obiettivi. Cerchiamo un po’ di felicità, buttandoci tra le braccia di uno sconosciuto.

E gli dei che fanno? Sono costretti ad assecondare i nostri impulsi e risorgere ogni volta che li crocifiggiamo con l’indifferenza. Nel momento in cui ci dimentichiamo di loro, agiscono nell’ombra. Ci vengono incontro, fino a darci qualcosa senza avere niente in cambio. L’amore è figlio di un compromesso senza compromessi, anche quando ci sono degli dei di mezzo. Questa è la lezione di un episodio che canta nello stesso coro degli altri, alla faccia delle divagazioni inutili. Inesistenti, nel mondo contorto di American Gods.

Antonio Casu 

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