Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla 1×03 di American Gods
Ci sta seducendo, e lo sta facendo con i suoi tempi. American Gods è una donna che si fa attendere fatalmente, vestita com’è da mille veli. Li sfilerà poco a poco, con grande sensualità. Credere nell’ultima follia della Starz è un atto di fede, soprattutto per chi non conosce il romanzo immortale di Neil Gaiman. I primi episodi ci hanno detto tantissimo, senza svelare granché. L’esperienza narrativa, portata avanti con meravigliosa lentezza, è in secondo piano. Ci siamo immersi con grande coraggio in un mondo che non conosciamo, lasciando spazio ad un’esperienza sensoriale nella quale la distanza tra realtà e fantasia è azzerata, fino a diventare superflua. Ora come ora, possiamo limitarci a credere in quello che vediamo, senza farci tante domande. Quasi fossimo inginocchiati di fronte al nostro dio con gli occhi rivolti verso il cielo.
La nostra testa è piena di neve, come afferma il titolo del terzo atto della prima stagione di American Gods. La neve, idealmente, è la manifestazione della fiducia nei confronti di un potere supremo, dentro e fuori di noi. Possiamo essere gli dei di noi stessi, consapevolmente. E nell’esserlo, trasformarci in fedeli privati di ogni forma di scetticismo. Arrivare a questo non è affatto semplice, e il percorso che sta affrontando Shadow Moon lo dimostra continuamente. Provate ad immedesimarvi in lui: dopo aver passato un lungo periodo in prigione, torna in libertà senza più avere niente. È perduto, in una giostra senza speranza. Conosce un mentore incredibilmente misterioso e una serie di personaggi particolari, trovandosi più volte in bilico tra la vita e la morte. Ad un passo dalla dama più ambita, stretti in una morsa come l’ultima delle pedine. La fede, in una situazione del genere, è l’unica risposta possibile, ma non ha la forza di tendere la mano ad un prossimo senza volto. Non crede più in niente, incluso se stesso.
Questo, in fondo, è l’unico presupposto possibile per dar vita ad una religione, e noi non stiamo facendo altro che assistere ad un atto di rigenerazione che si trascina sempre più stancamente in mille forme: la complicità in una rapina in apparenza senza senso, la scelta del mondo migliore dopo la morte, un amplesso con uno sconosciuto incontrato poco prima in un anonimo taxi. Con loro e con noi stessi, fino a incrociare lo sguardo di una moglie defunta. Se la religione è un atto di fiducia che riguarda ognuno di noi, lo è ancora di più per gli dei che giostrano tra le storie infinite del nostro mondo. Possono mettere su una bilancia il nostro destino e toglierci le catene, senza poter mai essere veramente liberi. Noi possiamo illuderci e fare di un sogno la nostra realtà, loro no. Devono limitarsi a sopravvivere. In questo quadro, la metafora sessuale è esplicativa come poche altre: nel momento in cui la vita è una battaglia con un essere che vincerà sempre e concederà solo delle vittorie effimere, non resta altro che la contemplazione degli altri. Essere ricordati è più importante della vita stessa. È l’unico compromesso possibile. Affinché accada, devono credere in noi.
Ora come ora non possiamo avventurarci in analisi più approfondite, ma, come dicevamo a proposito del secondo episodio nella recensione di una settimana fa, dobbiamo dare tempo alla giostra surreale di American Gods. Ora tutto è poco chiaro e ci sarà tempo per dare un’identità più definita ad ognuno dei personaggi che costellano un universo narrativo dai mille volti. Dobbiamo credere in questa serie, attendere ogni risposta e soffermarci su ogni dettaglio, perché niente è casuale. Se riusciremo in questo ci trasformeremo in fedeli estasiati e potremo avere fiducia, almeno per un’ora a settimana, in ogni nostra suggestione. Nella possibilità di regalare il primo bacio ad una divinità, per esempio. Oppure di prendere in mano la luna e fregarcene del resto del mondo. Sembrerà semplice, e forse lo è davvero.
Antonio Casu