ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste incappare in spoiler su Analog Squad.
Bella. Decisamente bella. Fuori dal comune. Decisamente fuori dal comune. Se avete tempo, durante le festività natalizie, cercate questa miniserie, su Netflix, composta da otto puntate della durata di circa un’ora e guardatela. Anzi, gustatevela perché ne vale davvero la pena.
Concedetele il tempo che necessita (anche perché c’è solo in lingua originale con i sottotitoli in italiano) e non ne rimarrete delusi. Analog Squad vi regalerà momenti davvero emozionanti, alternati ad altri proprio spassosi. Una risata, una lacrima, un pensiero, una riflessione e vi sentirete riconciliati con il mondo.
Mancano un paio di settimane al 2000. La Thailandia è devastata da una crisi senza precedenti che ha praticamente distrutto tutta l’economia del paese. In un’epoca dove i cellulari non erano alla portata di tutti le comunicazioni scritte viaggiano attraverso i cercapersone. Ed è proprio grazie a un messaggio su questi piccoli aggeggi, ormai sconosciuti ai più, che Pond viene avvisato dalla madre che il padre è in fin di vita, all’ospedale, nella loro piccola cittadina. Il messaggio è un invito a raggiungere il genitore morente, insieme alla famiglia, prima che sia troppo tardi. Pond, però, ha un problema non da poco: la sua famiglia non esiste. O meglio, c’è ma chissà dove avendolo abbandonato al suo destino da parecchi anni.
Così, in quattro e quattro otto, l’uomo contatta Lily, ex fidanzata, affinché si finga sua moglie. Insieme troveranno altri due, Keg e Bung, che dovranno, invece, impersonare i figli. E tutti e quattro, si recheranno al capezzale dell’anziano uomo dato ormai per spacciato.
Inaspettatamente, l’uomo si riprede e i quattro saranno costretti a fingere di essere la famiglia che non sono per evitare dolori eccessivi al fragile e attempato genitori.
L’inganno, la bugia e la famiglia. Sono questi i grandi temi sui quali si sviluppa tutta Analog Squad, scritta e diretta da Nithiwat Tharatorn. Temi che, nel corso delle puntate, coinvolgono tutti e quattro i protagonisti, nessuno escluso, con risvolti più o meno drammatici.
A fare da cappello, grazie al cosiddetto Millenium Bug, la possibilità che il 31 dicembre 1999 la civiltà moderna avrebbe potuto fermarsi del tutto: niente energia niente banche, aerei che sarebbero precipitati nel vuoto, eccetera. Una sorta di antipasto del 2012, insomma, ai quali siamo sopravvissuti tutti (per chi c’era, ovviamente). Alla fine di ogni puntata, infatti, un conto alla rovescia dice quanti giorni manchino al 2000 lasciando allo spettatore una certa ansia e un preciso interrogativo: dato che non è successo niente, cosa capiterà ai nostri protagonisti? Niente, appunto. No, non è spoiler. È semplicemente la vita che scorre, giorno dopo giorno.
L’idea, comunque, di ambientare questa miniserie a cavallo dei due millenni è perfetta. La ricostruzione degli ambienti, della tecnologia, e dell’idea di un futuro che dovrà venire e potrebbe essere meraviglioso, è davvero ben fatta e proietta lo spettatore in un passato che numericamente non è troppo lontano ma che ci appare, ormai, molto distante e sfocato. Soprattutto, fornisce quel tocco pop attraverso citazioni di film (stupenda e davvero divertente la scena della pillola rossa/pillola blu con la quale Bung cerca di dire la verità al nonno), musicali e sportive per nulla kitch e molto credibili.
Ma tornando ai grandi temi della bugia e della famiglia, nel corso delle puntate distribuite da Netflix scopriamo quali siano quelle dei nostri protagonisti. Attraverso una serie di flashback ben calibrati e distribuiti riusciamo, infatti, a ricostruire la storia, e i segreti, di ciascun personaggio.
Lily, interpretata da una stupenda Namfon Kullanat Preeyawat, è orfana di entrambi genitori e si dice felicemente single, contenta del suo lavoro e per nulla desiderosa di cambiare la sua vita. Peccato che il destino le riservi un colpo non da poco. Nel corso delle puntate lo spettatore scoprirà, attraverso momenti molto intensi, di come la sua vita sia, in realtà, soltanto un’illusione. La conoscenza dei genitori di Pond la porterà a rivalutare e rendersi conto che la vita, nonostante tutto, meriti di essere vissuta.
Pond, interpretato da Nopachai Chaiyanam, è un uomo sulla cinquantina, reduce da un periodo di prigione a causa di un fallimento. Si è affidato a uno strozzino per ottenere un prestito ed è perseguitato dall’idea di essere una delusione per il padre, con il quale ha smesso di parlare da oltre vent’anni.
Bung, interpretata da una brillante Wipawee Patnasiri, è proprietaria di una videoteca e cita continuamente film hollywoodiani per poter spiegare la vita. È cresciuta convinta che le assenze di suo padre, continue, fossero dovute al lavoro. Scoprirà, invece, un segreto immenso che le cambierà completamente modo di pensare e maniera di rapportarsi con gli altri.
Keg, interpretato dal divertentissimo Kritsanapoom Pibulsonggram, è un giovane romantico, desideroso di partire per gli Stati Uniti non riuscendo più a gestire la madre, ex modella di nudo e desiderosa di riprendere a posare per rivivere un passato che ormai non esiste più.
Ogni personaggio, come possiamo notare, ha un problema con la propria famiglia ed è vittima di una o più bugie, più o meno grandi. Ma finché non è parte del complotto ordito da Pond nei confronti degli anziani genitori sembra non rendersene conto. Essere parte di una macchinazione che dura oltre il dovuto innesca in ciascun protagonista una presa di coscienza che, inevitabilmente, lo porta a interrogarsi sul significato dell’inganno di cui è complice.
La Thailandia è un paese buddista e il karma uno dei concetti chiave della sua religione. Non stupisce, dunque, che l’inganno perpetrato verso i due anziani, seppur fatto con le migliori intenzioni, inneschi una serie di conseguenze capaci di sconvolgere la vita di ciascun personaggio. L’equilibrio che ne viene fuori, nel corso delle puntate, passa dall’essere pericolosamente fragile fino al suo consolidamento. Desideri e speranze, convinzioni e sovrastrutture tendono a perdersi o modificarsi per riallinearsi ai grandi cambiamenti in corso.
Analog Squad è capace di regalare allo spettatore una serie di perle di saggezza che la rendono un’opera quasi filosofica.
Gli autori, attraverso dialoghi intensi e mai banali, dimostrano una capacità narrativa fuori dal comune. Nel corso delle otto puntate i segreti dei protagonisti rischiano di esser travolgenti e debilitanti. Ogni volta però, quando tutto appare offuscato e compromesso, ecco che la finta famiglia si ricompatta e attraverso una amorevole e indulgente attenzione verso il personaggio che ha bisogno, riesce a sciogliere i nodi venuti al pettine.
Questa continua condivisione fa sì che vengano elaborati complessi sentimenti che cementificano il legame tra i personaggi. E la finta famiglia diventa unita, forte, il legame che inizialmente è vago e superficiale si intreccia e consolida perché capace di superare l’incomunicabilità che caratterizza le rispettive famiglie reali. Nella finzione Lily, Pond, Bung e Keg riescono a trovare quello di cui hanno bisogno. Trovandosi ad affrontare problemi complessi simili a ciò che hanno lasciato in sospeso, facendosi forza l’un l’altra creano legami e relazioni che non erano riusciti a costruire nella loro quotidianità.
Attraverso una sorta di terapia di gruppo i personaggi di Analog Squad ottengono la guarigione e la riconciliazione con il loro passato e con le persone a cui vogliono bene. Essendo un prodotto thailandese il lieto fine non è così scontato. E nemmeno importante. Ciò che conta davvero è il cammino intrapreso durante il quale la crescita personale di ciascun personaggio passa attraverso il riconoscimento e la comprensione.
Gli attori sono tutti bravissimi a vivere ogni momento con la giusta intensità. In particolare l’interprete di Lily capace di alcuni intensi monologhi davvero commoventi.
Questa miniserie è davvero un gioiellino. Regia e autori dosano le emozioni in maniera quasi perfetta. Non c’è il dramma esagerato e nemmeno la scena comica sguaiata. Il calibrato uso dell’emotività non lascia mai lo spettatore in balia si un sentimentalismo eccessivo. C’è grande intensità accompagnata da un umorismo sottile che fa da contrappeso.
Accompagnata da musiche strepitose e paesaggi mozzafiato, Analog Squad è una storia senza particolari colpi di scena. Ha alcune pecche, sulle quali si può soprassedere senza problemi, e potrebbe sembrare lenta a uno spettatore abituato ad altri ritmi. Ma va assolutamente guardata perché ha il grandissimo pregio di riuscire, con poco, a dire molto e a sorprendere. Rimanendo impressa, come solo le grandi storie sanno fare.