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And Just Like That – La Recensione dei primi due episodi del revival di Sex and The City: siamo (di nuovo) tutte Carrie

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Attenzione, l’articolo contiene spoiler sui primi due episodi di And Just Like That.

And Just Like That ho premuto il tasto play del televisore con il sorriso di chi è cresciuta con il ticchettio della tastiera di Carrie Bradshaw e la mania per le Manolo Blahnik. Non avevo grandi aspettative, pensavo a un prodotto che cavalcasse l’onda della popolarità immortale della serie per spremere ancora un po’ di ascolti, che in fondo è ciò che fanno la maggior parte dei revival.

La Manhattan delle small talk e dei Cosmopolitan era tutto ciò che immaginavo di vedere sul piccolo schermo. Ma non è stato così. Carrie, Miranda e Charlotte sono cresciute. La prima puntata di Sex & The City è andata in onda il 6 giugno del 1998, ed è terminata nel 2004 dopo sei intense stagioni. La serie tv targata HBO è un cult del suo genere, un prodotto che ha fatto dell’avanguardia il suo punto di forza e che, ancora oggi, a distanza di 27 anni, si rivela incredibilmente attuale. Non a caso, io sono nata nel 1996 e quando Carrie scriveva per la prima volta “C’era una volta una giornalista inglese che venne a New York” io avevo appena 2 anni. Eppure questa serie mi ha accompagnato in alcuni dei momenti più importanti della mia adolescenza.

Dopo 27 anni Carrie ritorna sui nostri schermi. Il tavolo del ristorante è sempre lo stesso, anche se intorno a quel tavolo c’era una persona in meno, e l’assenza si è fatta sentire forte e chiara (qui vi spieghiamo l’assenza di Samantha nel revival).

Si parla di capelli bianchi, si indossano gli occhiali per poter leggere il menù e si parla di figli adolescenti nel pieno della loro tempesta ormonale.

And Just Like That

And Just Like That riesce, proprio come nella serie originale, a fotografare sapientemente la realtà, senza scadere in una forzatura esplicativa. Il mondo è cambiato, emerge la componente LGBTQ+, il gender fluid e un mondo che corre molto più veloce di prima.

L’aspetto che più ho gradito di questi primi due episodi riguarda proprio la caratterizzazione dei personaggi, che non risultano snaturati. C’è Miranda che, come suo solito, non si tira indietro quando si tratta di mettersi in gioco, si iscrive a un Master sui Diritti Umani e si ritrova a sedere in un cerchio di ragazzi che hanno la metà dei suoi anni, con una professoressa che istintivamente confonde per un’altra studentessa. Tutto ciò che dice è fuori luogo, una nota stonata. Eppure è naturale, è qualcosa che una qualsiasi delle nostre madri avrebbe fatto allo stesso identico modo. Istintivamente la sua insicurezza in merito ai capelli bianchi si riflette sulle treccine afro della professoressa, l’elemento che l’aveva indotta a pensare che fosse una studentessa. Un errore ingenuo che chiunque noi avrebbe potuto fare allo stesso modo. E la genialità di Sex & The City prima, e di And Just Like That ora, è proprio questa.

Quante volte siamo state Miranda senza volerlo, come quando si vuole a tutti i costi dire o fare la cosa giusta e si finisce per fare tutto l’opposto.

And Just Like That
And Just Like That

Quante volte, invece, siamo state Charlotte: in bilico sulle nostre emozioni e sull’ingestibilità delle stesse. Un’amica che non riesce ad aiutare fino in fondo una persona a cui tiene. Una madre che non riesce a gestire due figlie completamente diverse tra di loro. L’ingenua discrasia generazionale non diventa una macchietta ma crudo realismo. Siamo tutti cresciuti, non c’è più lo scintillio della spensieratezza, e cercare di riprodurlo sarebbe stato uno sforzo macchiettistico inutile.

Ma con quanta leggerezza dipingono questi Cinquanta più duri del necessario. Come una madre che compra un vestito a sua figlia e non riesce a comprendere la lontananza tra quella figlia e quel vestito floreale.

In fine, come sempre, siamo tutte Carrie: a fare i conti con la vita che si spezza e la felicità che si incrina. Così, d’improvviso non sai più chi sei e come ci si addormenta la notte.

Devo ammetterlo, mi aspettavo di tutto tranne che il dover interrompere la visione per cercare un pacco di fazzoletti in giro per casa. Era tutto così perfetto, dopo tutti gli anni passati a rincorrere quel sogno d’amore, tutti quegli anni a pensare a Carrie e il suo Big, Big e la sua Carrie. Finalmente la felicità, lo scricchiolare di un nuovo vinile, lo schioccare di un calice di vino e lo sfrusciare setoso di una vestaglia da notte attorcigliata in un ballo d’amore.

Ma, proprio come la vita, la felicità ha sempre la data di scadenza e arriva un giorno in cui, in un modo o in un altro, bisogna far di conto con la morte. And Just Like That. Proprio così, all’improvviso e senza preavviso.

and just like that
And Just Like That

Così ti ricordi di quanto sei fortunato ad avere chi ami al tuo fianco. Ti ricordi di quanto è bello godere delle piccole cose della vita senza rimurginare troppo su tutto, almeno per una volta.

Dopo aver visto questi primi due episodi della serie le mie aspettative mutano radicamente in merito al prosieguo. Mi aspetto di vedere una Carrie che impara a gestire il dolore, che lo guarda in faccia scevro da ogni spettacolarizzazione. Deve essere tutto perfetto. Ma bisogna imparare che, a volte, di perfetto non c’è assolutamente nulla. Talvolta la sfida più grande risulta proprio quella di convivere con l’imperfezione e farne il nostro accessorio più luccicante e prezioso.

In fine, una menzione speciale per lo straordinario Willie Garson, interprete dell’indimenticabile Stanford Blatch, venuto a mancare improvvisamente qualche mese fa. Vederlo comparire sullo schermo è stato un colpo al cuore incredibile.

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