ATTENZIONE: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su Autumn Beat.
È uscito lo scorso 10 novembre 2022 Autumn Beat, film diretto da Antonio Dikele Distefano, qui alla sua opera prima, già scrittore, sceneggiatore e direttore di Esse Magazine, la più importante rivista digital dedicata alla musica e cultura urban in Italia. Da uno dei suoi libri, Non ho mai avuto la mia età, Netflix ha ricavato Zero, una serie uscita nel marzo del 2021 e cancellata, sfortunatamente, dopo la sua prima stagione.
Oltre alla regia Distefano ha scritto anche la sceneggiatura del film, estrapolata dal suo romanzo Qua è rimasto autunno, in collaborazione con Massimo Vavassori, coautore di Zero e conosciuto anche per aver scritto il documentario Italia ’70, 10 Anni di Piombo, reperibile su La7.
Autumn Beat è, apparentemente, un qualsiasi film sulla musica rap, sulla cultura hip hop e sul disagio giovanile ma in realtà nasconde due argomenti molto interessanti e molto forti. Uno prettamente sociale legato al concetto di famiglia che non è più quella legata ai vincoli parentali ma si allarga e comprende il cerchio delle amicizie e delle conoscenze, con le quali si condivide qualcosa di aggregante come, in questo caso, la musica. E l’ altro del tutto politico che riguarda le problematiche di integrazione non più legate ai migranti ma direttamente ai loro discendenti, a tutti gli effetti cittadini italiani senza cittadinanza.
Entrambi gli argomenti, però, sono trattati senza intento polemico né con l’interesse di condizionare lo spettatore trascinandolo da una parte o dall’altra. E questo è, senza dubbio, un punto a favore del film.
La storia, divisa in tre periodi differenti, racconta la vita di due fratelli afroitaliani abitanti della periferia di Milano. Tito e Paco, rispettivamente interpretati da Hamed Seydou e Abby 6ix, entrambi alla loro prima come attori, condividono fin da bambini la stessa passione per le rime e il freestyle. Mentre Tito è quieto e obbediente e si prende cura della madre, abbandonata dal compagno, padre dei due ragazzi, e per questo impazzita, Paco è più ribelle ed egoista. Questi due caratteri opposti sono perfetti insieme perché permettono loro di creare una specie di supereroe del rap. Paco, infatti, è un performer nato, sa stare sul palco e fa impazzire il pubblico. Tito, invece, preferisce stare dietro le quinte, complice anche un trauma cerebrale che gli impedisce di avere una fluente parlantina, e scrivere i testi per il fratello godendo, di riflesso, del successo di quest’ultimo.
I due vivono in un minuscolo appartamento insieme a David, interpretato da Dylan Magon (Zero), creatore dei beat sui quali rappa Paco. A completare quella che viene considerata da tutti una famiglia c’è Ife, interpretata da Geneme Tonini, già protagonista di Nudes, fidanzata di Paco ma amata segretamente da Tito.
Autumn Beat, come detto, si sviluppa su tre periodi. Nel primo, quello iniziale, ambientato nel primo decennio degli anni Duemila, Tito e Paco raggiungono finalmente l’agognato successo. Ma è proprio questo a rovinare, in maniera irreparabile, i loro rapporti. Di fronte a un sontuoso contratto Paco rinnega il fratello e il suo amico David. Non è capace di raccontare come stiano veramente le cose mentendo sia ai produttori, interpretati da Guè Pequeno ed Ernia, sia al fratello e all’amico ma soprattutto a se stesso.
Nel secondo periodo, invece, troviamo Tito e Paco bambini. È in questo periodo, ambientato sul finire del 1999, che irrompe Ife. Adottata, intelligente e scaltra, Ife è l’unica in grado di comprendere ciò che alberga nell’animo dei due amici. Inizialmente il loro rapporto all’interno del trio sarà basato sull’amicizia ma poi, nel corso degli anni, si trasformerà in un amore dai contorni non troppo chiari.
Infine il terzo, quello conclusivo, ambientato ai giorni nostri. Tito è diventato un professore di italiano per stranieri e la sua vita procede pacatamente, senza eccessi, rappresentazione perfetta del suo animo. Come sovente accade una tragedia è l’input necessario per seppellire vecchi rancori e riaffacciarsi alla vita guardando con compassione il passato doloroso.
Al di là di alcuni limiti sul piano narrativo e recitativo, sarebbe un peccato bocciare la pellicola di Antonio Dikele Distefano. Il film, infatti, racconta ben altro. Non sarà un capolavoro, ma di certo è uno dei primi a puntare l’obiettivo sulle periferie delle grandi città italiane abitate dalle seconde generazioni di immigrati, quelli nati in Italia. Situazioni del genere sono note al pubblico nostrano grazie alle produzioni straniere (americane, inglesi, francesi e tedesche, per citare le più note) che, a partire dagli anni Novanta, hanno affrontato proprio le difficoltà di chi nasce in un paese ma ha la pelle di un colore differente, per limitarci a quello che vedono i nostri ridotti sensi. In Italia, invece, queste produzioni sono ancora agli inizi ma promettono uno sviluppo interessante.
Attraverso il linguaggio universale della musica, e chi nega che il rap lo sia non sta al passo coi tempi, viene raccontata la storia di una famiglia che, nel corso del tempo, cambia come qualsiasi altra. Sembrerà banale dirlo ma occorre farlo: il colore della pelle, una religione differente o gusti alimentari diversi, non possono più rappresentare una discriminazione. La musica, poi, accomuna tutti quanti ed è fondamentale per l’espressione del proprio essere di fronte agli altri. In questo, per esempio, è magistrale la scena della gara di freestyle tra ragazzini, nella seconda parte del film. Lì, infatti, non conta l’abbigliamento né il colore della pelle ma solo la capacità di pronunciare parole più in fretta e con la rima migliore del proprio antagonista.
Parole. Un elemento importante per il genere umano e fondamentale per un rapper. Nella prima parte i due produttori sottolineano che i testi interpretati da Paco siano buoni, validi, ma che somiglino a tanti altri già sentiti. Lo invitano a non copiare perché a loro occorre un qualcosa di più per poterci creare sopra un brand di successo e guadagnarci un sacco di soldi. Al di là della mercificazione dell’arte, va sottolineata l’importanza che viene data all’originalità dell’individuo, unica certezza per poter veramente spaccare. Una originalità che si coglie, qua e là, anche nel film prodotto per Amazon Prime Video ma che risulta ancora acerba e bisognosa di maggiore sviluppo.
L’impressione generale, infatti, è che si sarebbe potuto fare di meglio effettuando una selezione più attenta degli argomenti da trattare in maniera da svilupparli con più profondità. La superficialità che traspare in certi momenti si riflette, per esempio molto sui tre personaggi femminili che avrebbero potuto essere molto interessanti ma che invece risultano inseriti, all’interno della trama, quasi come riempitivi o giustificativi di certi comportamenti dei corrispettivi personaggi maschili.
Autumn Beat, il titolo della canzone che porterà al successo Paco, è un film al quale dev’essere concessa una chance e dopo la prima visione ne merita un’altra per gustare un point of view diverso da quello solito cui siamo abituati. Distefano racconta, cercando di superarla, una frattura nella società italiana che, attraverso l’arte musicale e quella cinematografica, può e deve rinsaldarsi. Soprattutto perché l’arte, come la vita, sono inarrestabili e avanzano proiettando l’umanità verso il futuro.