ATTENZIONE! L’articolo contiene SPOILERS del film Babygirl.
Babygirl si apre nella passione e nel sudore. La prima inquadratura del film diretto da Halina Reijn ci restituisce una protagonista in preda all’estasi mentre riceve e dona piacere al marito. L’amplesso si conclude poco dopo e, senza dire una parola, la stessa protagonista si dilegua ben presto in un’altra stanza per darsi piacere da sola. Soffocando gemiti e urla, per non farsi sentire e magari così ferire il coniuge, mettendolo a conoscenza del fatto che quell’estasi di prima era solo una messa in scena. Ben presto capiamo che la recita è una costante nella vita di Romy. Potente CEO a capo di un’azienda che si occupa di spedizioni automatizzate, sposata con un uomo che la adora, madre di due figlie splendide e brillanti. Una vita da sogno, completata da tailleur alla moda e un’acconciatura sempre impeccabile.
Pulita e ordinata, Romy incarna quell’estetica “clean girl” che la rende un modello di bellezza da cui prendere ispirazione. Un’estetica che lei stessa avalla giorno dopo giorno, aiutata da piccole iniezioni di botox. La vita che Romy ha costruito, sulle ceneri di un passato oscuro, è una vita che sembra appartenere a un’altra persona. Recitando uno stereotipo, dall’estetica ben precisa, la protagonista ha rinnegato l’infanzia passata all’interno di una setta e tutto ciò a esso collegata. Ci sono, però, pulsioni che le sono rimaste attaccate addosso, come una voglia a marchiarle la pelle. Che questi desideri e impulsi derivino poi, effettivamente, dal suo passato o meno non è dato sapere.
Babygirl pecca, infatti, nel lasciare troppe informazioni alla libera interpretazione dello spettatore rivelando poco o nulla del background della protagonista.
Il passato stesso nella setta diventa, a tratti, un espediente perbenista per dare un senso ai kink di Romy. Come se debba necessariamente esserci un trauma alle spalle per provare attrazione e piacere verso un certo tipo di pratiche sessuali. Una contraddizione che mina l’obiettivo con cui Babygirl si presenta al mondo: quello di scardinare qualsivoglia retrogrado luogo comune legato al piacere femminile. Di fatto il film è un thriller erotico senza alcuna vera inclinazione per il pericolo (come magari nel caso di Miller’s Girl).
C’è qualcosa di magnetico in quel genere che cammina sul filo del rasoio tra desiderio e inganno, tra attrazione e paura. Quando entriamo in una storia di questo tipo, ci ritroviamo in un mondo dove l’erotismo non è un semplice ornamento, ma un’arma affilata, capace di destabilizzare, manipolare e persino distruggere. È cinema che tocca nervi scoperti, che gioca con le emozioni primordiali dello spettatore, mescolando la tensione della suspense con il fascino oscuro del proibito. Il thriller erotico esplora territori dove la vulnerabilità umana si scontra con il potere del desiderio. I protagonisti di questi film non sono mai eroi impeccabili: sono persone che agiscono sotto l’influenza di pulsioni potenti, spesso autodistruttive. Sono sedotti, traditi, tormentati. Non possiamo fare a meno di guardarli mentre si spingono sempre più vicini al punto di rottura.
Le illustri predecessore di Babygirl
Gli anni Novanta rappresentano il decennio d’oro del thriller erotico, un periodo in cui il genere raggiunge il massimo della sua popolarità e della sua complessità narrativa. Questo boom non è stato casuale. Esso rifletteva, infatti, un momento di trasformazione culturale, in cui le dinamiche di genere e il ruolo della donna nella società venivano rinegoziati e messi in discussione. Al centro di questa rivoluzione cinematografica c’è proprio la figura femminile, che nel thriller erotico degli anni Novanta si emancipa dal ruolo tradizionale della “vittima” o della semplice “oggetto del desiderio” per diventare una protagonista ambivalente, autonoma e capace di sovvertire le regole del gioco.
La donna del thriller erotico diventa una forza narrativa complessa: non è più solo un’icona di tentazione e perdizione, ma una protagonista che agisce per il proprio piacere, per il potere o per la vendetta. Sharon Stone in Basic Instinct (disponibile sul catalogo Netflix qui) è l’esempio perfetto di questa trasformazione. Il suo personaggio, Catherine Tramell, è una scrittrice di romanzi gialli e una sospettata di omicidio, capace di manipolare chiunque con intelligenza, carisma e una sensualità disarmante. Catherine non si scusa per ciò che è e non cerca redenzione: usa la sua sessualità come arma e il suo intelletto come scudo, in un mondo dominato da uomini che cercano di controllarla, ma finiscono inevitabilmente sotto il suo controllo.
Lungi dall’essere passivi oggetti del desiderio, i personaggi femminili di questo periodo usano la loro sessualità come mezzo per affermare il proprio potere e controllo.
Eppure, a un’occhiata più approfondita, in molti hanno intravisto nella neo figura femminile dei thriller erotici solo un altro stereotipo negativo sulla donna indipendente. Ritratta come manipolatrice o pericolosa, la “mangiatrice di uomini” è colei che non risponde alle regole della società ed è, per questo motivo, amorale e corrotta. Il desiderio sessuale non è dunque celebrazione di un’indipendenza del corpo oltre che dell’anima, ma una lettera scarlatta da indossare con vergogna.
Per esempio, nel film Discloure, con Michael Douglas e Demi Moore (nominata agli Oscar 2025!, ecco tutti gli altri), non è l’uomo a esercitare un potere sessuale coercitivo, ma la donna. Meredith sfida molte delle convenzioni del thriller erotico. Non è una vittima, né una figura completamente moralmente giustificabile. La sua sessualità è una delle sue armi, ma il film lascia aperta la questione su quanto il suo comportamento sia frutto delle sue ambizioni personali o di un sistema che premia l’aggressività e il controllo.
Attrazione e adorazione
Ultima, quindi, di una lunghissima serie di protagoniste del genere, Romy ha l’ambizione di riscattarle tutte. Il matrimonio con Jacob, regista teatrale alle prese con un adattamento di Hedda Gabler, per quanto felice non le dona soddisfazione sessuale. L’atto si ripete sempre uguale a se stesso, senza guizzi o inventiva da parte di un partner che desidera solo guardarla negli occhi. Un’adorazione che suscita in Romy sentimenti contrastanti. Da un lato, il senso di colpa di non essere “come tutte le altre donne”. C’è qualcosa di diverso e sbagliato in lei. Qualcosa che non le permette di apprezzare a pieno l’amore profondo e incondizionato di Jacob. Dall’altro, una rabbia che la rende repressa e infelice. Fino a quando non arriva Samuel.
Il giovane e aitante stagista incarna i desideri sopiti a lungo di Romy.
Un “bad boy” in piena regola, uscito dritto da un catalogo e che ha inviso l’orbita della protagonista. Con lo sguardo bovino di Harris Dickinson (protagonista in The Iron Claw), Samuel si fa strada fiutando l’insoddisfazione di Romy e attirandola a sé. Esattamente come il cane che ha addomesticato per strada, anche nel rapporto con Romy, Samuel utilizza subito il metodo del do ut des. La Gen Z si prende la sua ulteriore rivalsa sulla vecchia generazione, esercitando un potere che sia fisico che intellettuale insieme. Romy è succube dei suoi stessi impulsi, finalmente soddisfatti da un amante che non la giudica, ma che la umilia. Esattamente come vuole lei.
L’adorazione diventa ben presto ossessione, riflettendosi negli ambienti squallidi e nelle stanze luride di hotel in cui vengono consumati frettolosi e non poi tanto sexy incontri. Babygirl promette, ma non mantiene alcuna promessa. A parte una ciotola di latte bevuta da terra e una immensa Nicole Kidman, quasi sempre, a quattro zampe, non assistiamo davvero a nulla di perverso o erotico. Il rapporto tra i due personaggi si basa tutto su un potere espresso a suon di ricatti e scenate, ma mai realmente nel sesso.
Annullamento e accettazione
Così, mentre si concludono i primi due atti di questo tango zoppicante, assistiamo al declino della credibilità della protagonista. Romy agisce inspiegabilmente in maniera quasi isterica, atteggiandosi da femmina tradita e, simultaneamente, proteggendo quel che resta della serenità familiare. Nulla ha molto senso, se non che a Nicole Kidman si sente a suo agio nelle scene di nudo. Romy si annulla in questa torbida relazione, così come annulla il suo ruolo in essa. Amante? Madre? Non è ben chiaro, tanto da confondere Samuel e noi spettatori. Poi, avviene il twist. Lo stesso, inevitabile di ogni thriller erotico degli anni Novanta: interviene il marito. La verità viene a galla e Jacob (Antonio Banderas) agisce picchiando Samuel e battendosi i pugni sul petto.
L’ordine viene ristabilito. Lo stagista parte senza un addio e la coppia si riscopre più affiatata e innamorata di prima. Come? Semplicemente parlando. Babygirl si chiude con un’altra scena di sesso, in cui stavolta Romy non ha paura di rivelare al marito cosa la eccita davvero e provare così un piacere che non si era mai concessa prima con lui. Accettando se stessa e i suoi desideri, Romy accetta anche che qualcuno di molto vicino a lei possa vederla per come è davvero.
Babygirl funziona, quindi? La risposta è nel mezzo.
Ci sono indubbiamente i presupposti per apprezzare una pellicola che, in fin dei conti, denuncia determinati tabù ancora molto vivi e presenti. Le donne, lungi dall’essere angeli o streghe, sono creature fatte di sangue e carne, con pulsioni e fantasie diverse le une dalle altre. E non è tutto fiorellini, unicorni e “vissero per sempre felici e contenti”. L’errore di Babygirl sta piuttosto nel promuovere questo messaggio, ma non realizzarlo mai sullo schermo. Il sesso in scena, esclusi alcuni momenti nella camere d’hotel, rimane del tipo vanilla. Non c’è traccia del BDSM o di altre pratiche che avrebbero davvero confuso lo spettatore medio di sesso maschile. Babygirl vuole essere avanguardista, ma si dimostra più pudica di quanto ci saremmo aspettati.