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Back to Black – La recensione del bruttissimo, disastroso film su Amy Winehouse

Back to Black
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Ci vuole talento. Ci vuole davvero talento per sbagliare un film in tutti i modi in cui un film può essere sbagliato. E di certo, con Back to Black ci sono riusciti. Immaginate di andare a vedere il biopic musicale di una delle artiste inglesi più tormentate – ma più amate e iconiche -, un’artista chiaramente problematica, con una storia pesante alle spalle e che muore tragicamente all’età di ventisette anni e poi pensate di vedere il racconto della sua storia estremamente banalizzato, la rappresentazione della protagonista resa in forma quasi caricaturale e i principali motivi della sua distruzione eccessivamente romanticizzati: ecco a voi Back to Black.

“Brutto” è l’aggettivo che ho ripetuto di più durante la passeggiata per tornare a casa. Perché – e adesso cercherò di riassumere quanto più brevemente possibile i miei pensieri sul film – fare un biopic su un’artista così importante, ma trovare il coraggio di raccontarla solo a metà? A questo punto è meglio non farlo.

Il Back to Black aveva come obiettivo quello di raccontare la vita(?), forse la distruzione(?), forse la carriera(?), ma senza realmente soffermarsi sulla storia musicale dell’artista, quindi cosa voleva davvero raccontare? Non mi è ancora chiaro. Mettiamola così, è il racconto superficiale e sommario del periodo tra i 16 e i 27 anni una persona che guarda caso è anche un’artista e una cantante con una delle voci più riconoscibili, particolari e belle degli anni 2000.

Back to Black
Marisa Abela e Lesley Manville (640×360)

Trovare qualcosa di positivo in questo film è difficile, ma forse qualcosa c’è ed è il rapporto tra Amy e sua nonna, qualcosa che genuinamente scalda il cuore, seppure – anche questo – sia trattato superficialmente e termini con una frase che considerata l’intera struttura e scrittura del film risulta estremamente banale. Ma è esattamente quello che ci si aspetta, un tentativo triste di far presa sull’emotività della spettatore. A parte questo direi che di salvabile non c’è più niente.

Partendo da Marisa Abela che nella sua interpretazione, forse per sopperire alla mancanza di somiglianza estetica (e io sono del parere questo fattore non sia essenziale quando si fa un lavoro di interpretazione di un personaggio reale perché esistono lavori di make-up scenico per colmare le differenze estetiche) si sforza così tanto di sembrare Amy nelle movenze, nelle espressioni, nella voce che questo processo di “overacting” si traduce in una interpretazione che è più una imitazione, una caricatura di Winehouse.

Praticamente Marisa Abela è Brenda Lodigiani che imita Annalisa a Gialappa’s Show, ma Brenda Lodigiani è una comica che estremizza i tratti del personaggio per caricaturizzare un personaggio su cui si intende ironizzare, Abela no. Tra l’altro anche la doppiatrice di Amy alimenta la sensazione caricaturale, modificando la voce fino ad ottenere un risultato che ti dà la sensazione di ascoltare Chris Griffin parlare, perché? Che bisogno c’era?

Inoltre, se proprio dobbiamo mettere i puntini sulle “i”, Abela ha una voce troppo pulita e acuta per interpretare Amy. Ora non voglio che questa recensione si focalizzi troppo sulla povera Marisa Abela, non è colpa sua se è stata diretta male e ha dovuto recitare su uno script banale e superficiale.

Back to Black
Marisa Abela e Eddie Marsan (640×360)

Perciò parliamo un secondo di come è stata descritta Amy Winehouse in Back to Black. E indovinate come è stata scritta? Male. Ora, premetto che Amy Winehouse non era una santa, lo sappiamo. Non è una martire, è in parte carnefice di se stessa, questo è chiaro a tutti, proprio per questo non capisco la caratterizzazione così banale e ingenua del film. Il ritratto che ne viene fatto è quello di una persona estremamente infantile, insopportabile a tratti.

Inoltre, altri suoi carnefici vengono romanzati al punto tale che il padre ne viene fuori benissimo e l’intera storia con l’ex marito è riassunta in una delle peggiori storie d’amore di quei film sentimentali da seconda serata di Rai 2 il mercoledì, quelli in cui capiti per sbaglio e che togli dopo cinque minuti finendo per guardare i cartoni animati su Boing o le ricette di Benedetta su FoodNetwork. Il loro rapporto co-dipendente e tossico viene raccontato per sommi capi, ma quello che proprio non ho sopportato sono i momenti “buoni” girati come se stessimo guardando un film tipo Love, Rosie. Tremendo.

Amy Winehouse nel poster di “Amy” di Asif Kapadia (640×360)

Prima di recensire di Back to Black mi sono riguardata qualche documentario su Amy Winehouse, partendo ovviamente da Amy di Asif Kapadia del 2015, ad oggi ancora quello che ho preferito sull’argomento, e concludendo con Reclaiming Amy di Marina Parker e proprio come ricordavo, le figure del Padre, Mitch e dell’ex marito Blake sono molto più complesse e ricoprono un ruolo più importante nella storia di Amy di quanto venga raccontato in Back to Black. Per questo capisco perché forse sia stata “tutelata” così tanto la figura del padre.

Ricordiamo che Amy ha cominciato ad avere problemi di depressione a seguito del trauma della separazione dei genitori da bambina, ma nessuno dei suoi parenti diretti l’ha mai aiutata. Non hanno riconosciuto la bulimia, l’alcolismo, l’uso di sostanze, la depressione e nonostante ci fossero persone che cercavano di fargli aprire gli occhi al riguardo, hanno continuato a ignorare l’aspetto psicologico. E tutto questo per cosa? Per lucrare su di lei, sulla sua carriera. L’hanno spremuta come un limone finché non c’è stato più nulla da prendere.

Un padre che di fronte all’alcolismo della figlia, estremamente dipendente soprattutto emotivamente da lui, alza le spalle e decreta che sta bene mettendola su un aereo per cominciare il tour mentre è ancora addormentata, in pigiama e con i postumi della sbronza; uno che dopo la richiesta della figlia di allontanarsi dall’invadenza dei paparazzi e dal caos della città, le porta una troupe nel luogo in cui si stava riprendendo per girare un documentario sulla sua vita (di Mitch), a me non sembra proprio il padre dell’anno e soprattutto non mi sembra una figura così marginale come è stata rappresentata nel film. Mitch interviene qualche volta, solo all’inizio si intuisce il potere emotivo che ha sulla figlia. E con l’introduzione di Blake, il suo personaggio viene relegato sullo sfondo.

Marisa Abela e Jack O’Connell (640×360)

L’altro “campione”, Blake che si lamenta perché sostiene che la sua rappresentazione nel film sia troppo negativa, in realtà – a mio parere – ne viene fuori piuttosto bene. Viene descritto come un ragazzo carismatico e tormentato, vittima di abusi ripetuti e che ha fatto l’unico errore di innamorarsi di una ragazza inquieta come Amy. I call it bullshit, direbbero gli amici anglofoni. Blake è a tutti gli effetti la persona che ha portato Amy, estremamente co-dipendente e debole psicologicamente a fare uso di sostanze stupefacenti pesanti, nei documentari è chiaro. Amy ha la sua parte di colpa, ma stiamo parlando di una relazione estremamente tossica e fondata su un tentativo reciproco di distruggere l’altro che è stata raccontata come un film romantico.

Perciò no, non ci sto quando questo personaggio assai più complesso (e chiaramente sto provando a essere quanto più neutrale e vaga possibile) viene idealizzato e romanzato come fosse il tenebroso, il problematico in un film romantico, ma carismatico e affascinante.

Inoltre, non si spiegano i motivi dei conflitti con Blake, né le violenze reciproche, viene lasciato tutto in sospeso. Mi sono chiesta perciò, cosa stessero cercando di mettere in scena? Che la causa principale delle problematiche tra Blake e Amy fosse la droga è chiaro, ma tutto quello che Blake riassume nell’incontro in carcere si poteva mettere in scena, e invece ci viene propinato uno spiegone di due minuti di qualcosa potevamo vedere e no, non si tratta di pornografia del dolore: si tratta di raccontare le tragiche conseguenze di un rapporto disfunzionale e corrosivo che – nei documentari – è stato ampiamente raccontato. Dunque – ancora una volta – Back to Black mostra un approccio superficiale al racconto.

Marisa Abela (640×360)

Ma se queste sono cose problematiche da raccontare, ciò che non funziona più di tutto il resto è la storia artistica di Amy Winehouse. Perché se non stiamo approfondendo la sua storia personale, non stiamo raccontando le conseguenze tragiche di un rapporto tossico, non stiamo parlando dell’insistenza e della persecuzione e della gogna mediatica allora di che stiamo parlando? Forse della sua carriera musicale? Nemmeno. La vediamo per sommi capi, non sappiamo nulla di nulla, ma Amy Winehouse a una certo punto diventa famosa in tutto il mondo. Bene, grande, granzie per averci informati.

Io conosco la storia artistica di Amy Winehouse, dai jazz club al successo internazionale. Ma, prendiamo il caso che un ragazzino vada a vedere Back to Black perché incuriosito dalla figura di Amy, dalla sua musica e dalla sua tragica storia: questo film cosa racconta della sua carriera artistica? Diciamolo insieme: NIENTE.

Perciò e vi prometto che adesso la smetto, Back to Black è un’accozzaglia di banalità e superficialità che non solo non rendono omaggio alla figura complessa di Amy Winehouse, ma non ne racconta nemmeno la storia artistica, le potenzialità, la grandiosità seppur breve del suo talento che sarà e resterà eterno.

Back to Black è la ridicolizzazione di una storia tragica, particolare, difficile da raccontare se non si vogliono correre dei rischi e se si cerca di accontentare tutte le persone coinvolte. Tutto questo raccontato con una fotografia da film romantico a basso budget, con colori leggermente saturati per ricreare forse l’atmosfera uggiosa degli scenari inglesi; da una scenografia che racconta dei posti di degrado in maniera estremamente abbellita e pulita che fa emergere la mancanza di crudezza, di realtà del racconto.

Insomma, Back to Black è un film brutto, non si può descrivere altrimenti.