ATTENZIONE! L’articolo contiene SPOILERS del film Beetlejuice Beetlejuice.
Sono passati trentasei anni da quel Beetlejuice (che potete vedere sul catalogo Prime Video qui) che lanciò la carriera di Tim Burton come regista e di Winona Ryder come attrice. Trentasei anni di storia del cinema in cui sono state compiute centinaia di evoluzioni e innovazioni, che hanno visto cult susseguirsi uno dopo l’altro, che hanno segnato l’ascesa e la caduta di star e meteore. Ma si tratta anche di trentasei anni della nostra vita, durante i quali siamo cresciuti, cambiati e diventati adulti (dipende dai punti di vista). Eppure, eccoci di nuovo inaspettatamente a Winter River, a bazzicare lo stesso cimitero e la stessa casa infestata che, nel 1988, aveva fatto da scenario a un cult generazionale. Bizzarro, gotico e strambo, come il suo regista d’altronde, Beetlejuice raccontava la classica storia di fantasmi ma senza i toni della classica storia di fantasmi.
I coniugi Adam e Barbara Maitland diventano vittime del sistema, nel momento in cui non riescono a godersi la morte in pace e sono “perseguitati” dai progetti di ristrutturazione dei vivi. Solo che, al contrario dei fantasmi di The Others, i Maitland decidono di optare per un aiuto dall’esterno. Senza rendersi conto del grosso guaio in cui si stanno cacciando. Lo “spiritello porcello” fa la sua comparsa tra battute sporche, blasfemia e insetti insozzando la scena con il suo carisma grottesco ma altrettanto irresistibile. Anzi, l’umorismo grottesco e irresistibile di Michael Keaton. Lo stesso Keaton che, solo l’anno dopo, si metterà in tiro per il Batman di Tim Burton. Adam e Barbara chiamano quindi in aiuto lo spirito senza sapere cosa sono in procinto di scatenare sull’ignara famiglia Deetz, vittima del caos dell’oltretomba.
In particolare è Lydia Deetz a rischiare grosso quando Beetlejuice si mette in testa di sposarla con tanto di cerimonia e prete.
Difficile catalogare Beetlejuice dentro un genere preciso. Come del resto tutte le opere del regista (qui la classifica dei suoi 10 migliori film), anche in questo caso il ragazzino di Burbank ci porta nella sua favola gotica in cui gli outsider sono i veri protagonisti. Tim Burton è uno dei registi più famosi del mondo, proprio perché ha reso quel suo essere freak non solo uno stile di vita ma lo stampo inconfondibile di (quasi) tutti i suoi film. Il nero, le atmosfere gotiche, i film di serie Z, Victor Price, le poesie di Poe sono tutti ingredienti indispensabili per il calderone che è la mente dell’autore (qui vi consigliamo 5 serie tv da guardare se amate Tim Burton). Il ragazzino malinconico è un personaggio inventato da Burton a sua immagine e somiglianza, riflesso di quell’infanzia solitaria che continua ancora a perseguitarlo e influenzarlo.
I vampiri (Dark Shadows), gli alieni (Mars Attacks) e gli spiriti demoniaci (Beetlejiuce) non fanno più così paura, anzi ci mostrano con ironia che non sono loro i veri mostri ma quelli che danno loro la caccia e vanno in giro vestiti di malcelato buonismo. Anche la musica oltre ai disegni è il segno distintivo dei suoi film, grazie al sempre presente Danny Elfmann. Burton attraverso le note riesce a dire tutto quello che sente e pensa, facendolo provare anche a noi e trasformando per esempio Nightmare Before Christmas in un inno alla vita.
Icona del cinema dark-alternativo e visionario, Tim Burton continua a vedere e vivere la vita a modo suo colorando il mondo di nero e bianco ma in tutte le loro gradazioni.
Dove si colloca allora Beetlejuice Beetlejuice in questa longeva e iconica cinematografia?
Si tratta forse del canto del cigno di un autore che ha esaurito il suo tempo o piuttosto della sua rinascita? Dopo i fallimentari Dumbo e Miss Peregrine, Burton ritorna alle origini. Già con Wednesday, il regista aveva ammesso di aver ritrovato l’ispirazione. Beetlejuice Beetlejuice potrebbe auspicabilmente rappresentare l’inizio di una nuova era. Cosa è accaduto quindi in questi trentasei anni lontani da Winter River? Delia è diventata un’artista di talento mentre Lydia una famosa sensitiva che conduce un programma tv di successo dal nome “Ghost House”. Ha avuto una figlia, Astrid, con la quale non va per nulla d’accordo. Sta insieme a un uomo che grida “narcisista patologico” dal primo momento in cui compare in scena. E di tanto in tanto le sembra di vedere Beetlejuice, artefice di traumi irrisolti.
Vabbé ma sono robette da nulla. Alla fine che vuoi che sia un fantasma in più rispetto ai soliti che vede ogni giorno per strada. Nel mondo reale, insomma, le donne Deetz hanno il loro da fare e con la morte improvvisa di Charles Deetz si ritrovano tutte di nuovo sotto lo stesso tetto. Anche nell’oltretomba, però, si percepisce tumulto e agitazione. Da quando Delores, ex-moglie di Beetlejuice (già, abbiamo avuto la stessa reazione), riesce a rimettere letteralmente insieme i pezzi e inizia a seminare il panico.
Tante cose sono dunque cambiate e, allo stesso tempo, nulla lo è. Così come toccava a Winona Ryder, trentasei anni fa, dare voce agli outsider del tempo, adesso quel ruolo spetta di diritto a Jenna Ortega (protagonista di Miller’s Girl, di cui vi parliamo qui). La giovane promessa di Hollywood e feticcia in erba del regista continua a interpretare più o meno sempre lo stesso ruolo. Pur riuscendo a suo modo a trovare chiavi di lettura diverse per portarli in scena.
In questo caso, Astrid non è una versione 2.0. della madre adolescente ma rappresenta la sua generazione in contrapposizione con la vecchia. Tocca a Lydia, quindi, sentirsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Su di lei ricade la colpa di ogni cosa, come fu per Delia nella prima pellicola. Il divario generazionale c’è ancora, come probabilmente ci sarà nei secoli dei secoli amen. Ma una chiarissima deviazione dall’originale non passa inosservata e implicitamente getta una luce rivelatrice sulla Gen Z.
Credere al paranormale è ormai passato di moda, logica e scetticismo are the new solulu.
Lydia Deetz, che ha costruito tutta la sua vita e carriera sulle proprie capacità di sensitiva, non è la più l’outsider della storia ma la speculatrice che si è arricchita sulle spalle dei creduloni. Astrid, invece, è razionale, fredda e con i piedi saldamente ancorati a terra. Figlia dei social e delle fake news, ha imparato a non credere a nulla che non possa toccare. Proprio come San Tommaso. Fino a quando non tocca con mano il mondo degli spiriti e i bubboni putrescenti del padre morto, ora impiegato alla sezione Immigrazione dell’aldilà.
Tim Burton ha sempre avuto un occhio di riguardo per le nuove generazioni mettendone in risalto i tratti più bistrattati e le problematiche incomprese. Astrid cerca di trovare la sua voce e la sua strada, confrontandosi con un mondo di adulti e di coetanei che non riescono e non vogliono capirla. Lungi dall’essere l’adolescente superficiale e immersa nel cellulare che ci aspetteremmo, Astrid è, di fatto, un outsider per la sua generazione.
Quando la ragazza viene ingannata dagli occhi da cerbiatto del Casper di quartiere, tocca all’improbabile coppia Lydia-Beetlejuice salvarla.
Nell’oltretomba i due la cercano in lungo e in largo mentre sono a loro volta inseguiti da Delores, pazza di gelosia, e dal detective Wolf Jackson (un Willem Dafoe che potrebbe recitare anche la lista della spesa in bianco e nero e muto e rimanere lo stesso ineguagliabile). L’aldilà burtoniano, il bizzarro mondo dell’oltretomba, è un labirinto di creature deformi, architetture impossibili e regole incomprensibili, eppure è presentato con una tale ironia e leggerezza da risultare divertente, piuttosto che inquietante. Così come nel primo film, anche stavolta l’aldilà è popolato da scheletri e fantasmi di ogni sorta, in fila per timbrare il biglietto di entrata e trovare il proprio posto in questa non-morte. Si perdono i riferimenti e gli easter egg al primo Beetlejuice, alcuni più riusciti di altri. Perché, come spesso accadde, l’effetto nostalgia può diventare un’arma a doppio taglio.
Nel caso del sequel riesce ad accendere la fiammella dei nostri cuoricini millennials. Salvo un numero musicale che non scalfisce minimamente il ricordo e appare come la triste replica ordinata su Temu. Ecco, in quel caso, Tim Burton avrebbe furbescamente dovuto optare per una canzone più pop e riconoscibile. Un po’ come ha saggiamente fatto Deapool & Wolverine per la sequenza di apertura. In ogni caso, il film procede spedito riprendendo la stessa struttura narrativa del primo. Una prima parte introduttiva che riprende tutte le fila della storia e si sviluppa per arrivare alla seconda parte, dedicata all’aldilà e al divertimento. Ironico, perché in questa duetto si concentra il secondo e forse più importante tema della pellicola.
La morte non è affatto una cosa seria.
Invece di rappresentare la morte come un’esperienza esclusivamente tragica, oscura e definitiva, Burton l’ha spesso trasformata in un punto di partenza per storie surreali, intrise di un macabro senso dell’umorismo e di una profonda empatia verso l’animo umano. Il modo in cui Burton tratta la morte riflette una visione dell’esistenza in cui il confine tra la vita e l’aldilà è sfumato. Nell’universo burtoniano, la morte non rappresenta necessariamente una fine, ma piuttosto una continuazione dell’esistenza in una forma differente.
In La Sposa Cadavere, il mondo dei morti è colorato e pieno di musica, in netta contrapposizione con quello dei vivi, grigio e monotono. In Beetlejuice, l’aldilà è un rigido sistema burocratico, in cui ognuno ricopre un ruolo ben preciso così come accadeva in vita. Sono personaggi caricaturali che non fanno per niente paura, anzi. Uno stile eccentrico, utilizzato dal regista per desensibilizzare il pubblico dalla paura della morte, umanizzandola e rendendola più familiare.
Nel primo Beetlejuice, Adam e Barbara imparano ad accettare la loro nuova condizione di spiriti, trovando inaspettatamente una nuova famiglia nei Deetz.
Cambiano le dinamiche e i rapporti ma non le emozioni e gli intenti. La favola macabra rimane il mezzo espressivo per eccellenza con la quale Tim Burton torna a parlare, finalmente, di ciò che ama e lo rende felice. Beetlejuice Beetlejuice è proprio questo: una nostalgica passeggiata sul viale addobbato a tema Halloween dei ricordi. Libero da regole e costrizioni, il regista torna a fare un cinema che porta inequivocabilmente la sua firma. Nel bene e nel male. I difetti del sequel sono evidenti, a cominciare da una storia che si regge traballante e che non cade solo per buona pace del talento dei suoi interpreti e del fattore nostalgia. La stessa nostalgia canaglia che ci spinge inesorabilmente in sala pur sapendo che Beetlejuice Beetlejuice non potrà mai eguagliare il primo.
Però è uno zuccherino al quale non possiamo rinunciare perché il suo sapore ci riporta indietro a un passato che è sempre idilliaco ed è sempre meglio di come lo abbiamo, magari, realmente vissuto.
Tim Burton si diverte e gioca. Gioca con noi e le nostre aspettative, ma gioca anche con i limiti del cinema e della linearità narrativa. Tra sequenze musicali, omaggi a Mario Bava, autocitazioni e l’amata stop-motion, il regista è, per la prima volta da tanto tempo, del tutto senza freni. Un ragazzino che ha riscoperto la magia del cinema e la gioia di dirigere un film stando alle proprie regole e alla propria creatività. Un atto d’amore puro e semplice che magari non sarà perfetto nella forma ma che ci fa uscire dalla sala felici e orgogliosi di essere un po’ strani e outsider anche noi.