Il deserto è la terra di nessuno, lo è tanto più in Breaking Bad e Better Call Saul. È il luogo in cui le ipocrisie, le giustificazioni e i compromessi morali non esistono più. Da quel deserto Walter White ne è uscito spoglio, messo a nudo, e ha così riscoperto il suo vero nome. In the desert you can remember your name. In quello stesso deserto è apparso Saul, un po’ più se stesso e un po’ meno Jimmy. Non tutto muore nel deserto: dietro l’apparente pace, dietro la quieta, esanime tranquillità delle rocce bruciate del sole, della terra color caramello consumata in sabbia c’è la vita.
È una vita nascosta ma tenace, tanto e quanto il luogo che la ospita. È la vita di uno scarafaggio, di un animale che si nasconde per sopravvivere, che si arrangia, che si trasforma in lupo quando è al sicuro e che si maschera da pecora quando è in pericolo. Per sopravvivere nel deserto devi essere più duro del deserto. O più furbo. Là, tra arsura e rachitici arbusti stanno le bibliche tentazioni, la prova più dura, perfino per Dio. Perché nel deserto non c’è scusa che tenga, sei solo tu con te stesso, col tuo “Io” che ti guarda, ti parla, ti giudica. Ti dice che stavolta no, non puoi fingere, non puoi ingannarti. Se vuoi sopravvivere devi essere te stesso.
La terra di nessuno diventa, volta per volta, in Better Call Saul, la terra di ciascuno.
Non servono visioni oniriche per riscoprire se stessi, basta solo esserci, e la prova, la tentazione, verrà da sé. In questo luogo di contraddizioni, di apparente morte e di brulicante vita nascosta, di rocce e spazi ostili, di scarafaggi e arbusti c’è posto perfino per la delicatezza.
È la fragilità di un fiore, che si fa largo tra rovi e rami secchi. È il fiore di un colore che il deserto, apparentemente, non accetta perché non gli appartiene: le tonalità del deserto sono quelle del giallo ocra di Jimmy, di quella natura a metà strada tra il verde-blu di chi sta al di qua delle legge e il rosso dei criminali. Il verde-blu, cioè, della natura rigogliosa e viva, del gorgoglio delle acque, fonti di vita, e dei cieli limpidi di giustizia e il rosso del sole che brucia e consuma ogni morale. Ma il deserto non è di nessuno e di tutti insieme: così si tinge di giallo quando è attraversato dall’influenza ambigua di Saul, pronto a naufragare in un rosso fuoco quando il Cartello impone la sua presenza.
A volte, però, capita che le nuvole oscurino il sole, che l’ombra benigna estenda la sua influenza sulla terra secca donando sollievo e ristoro ai risoluti organismi che la popolano. A volte, il boato dei tuoni preannuncia nuova vita, una speranza che si rinnova, costantemente, assurdamente: l’acqua rianima le gole secche di piante e animali, l’azzurro della pioggia si mescola all’ocra, lo scurisce nel marrone. Rende quel terreno permeabile, plasmabile, di nuovo adatto alla vita. Là, un debole fiore resiste, grida al deserto tutta la sua rabbia, la sua voglia di vivere ed è monito e speranza per tutti. Quel fiore è il blu della vita, della giustizia, degli affetti, dell’amore. Dell’insulto contro i potenti, contro maiali senz’anima che si credono padroni del deserto.
Quel fiore è Nacho Varga.
Nel microcosmo di Better Call Saul e di Breaking Bad tutti, prima o poi, sono tenuti a fare i conti col deserto. A fare i conti con sé stessi. Puoi scoprirti famelico lupo, furbesco scarafaggio o mansuta pecora. Heisenberg da quel deserto ne è uscito affamato, Saul ancora più scaltrito, Hank non ne è uscito per nulla. Perché a essere pecore si può sopravvivere, come sopravvive un fiore blu tra rami secchi ma è più facile finire sopraffatto, vittima di una terra che non fa sconti e che ammette solo la legge dell’adattamento.
Nacho, come tutti i grandiosi protagonisti di Better Call Saul, è sceso fino alla forma di degradazione morale più bassa. Si è immerso nel liquame provando a trattenere il respiro con un solo pensiero: passerà. Passeranno i potenti, passeranno i criminali: devo solo tenere duro, prendere quanta più aria possibile e rimanere nascosto, come uno scaraggio, in mezzo a tanto degrado. Ma Nacho uno scarafaggio non lo è, non può accettare di ricacciare sempre dentro l’aria. Prima o poi, quell’aria, vuole sputarla fuori, farla scorrere tra le tonsille vibranti, tra la lingua danzante e le labbra ora contratte ora distese: trasformarla in parole, in un insulto disperato contro la follia degli impresari di morte.
Nacho aveva fatto una scelta. Aveva sentito su di sé -così come già Saul e Walt- il rischio del fallimento, di una vita grigia e senza riconoscimenti. Aveva visto proiettata su di sé l’ombra del padre, di quell’uomo tutto chiuso nel suo microcosmo, così umile da apparirgli meschino. Aveva scelto di essere lupo seguendo la strada più facile e remunerativa. Ma lupo, Nacho non era, non pienamente almeno. E così è finito nel deserto, chiamato a rispondere al giudice ultimo e solo: se stesso.
Una via di scampo, Ignacio, ce l’avrebbe avuta.
“Abbiamo parlato di questo tante volte. Sai cosa devi fare: vai alla polizia“. Per un uomo di giustizia, per una “pecora”, come Manuel Varga, tutto dedito al duro e povero lavoro, la soluzione sarebbe lì, a portata di mano, chiara e limpida. Ma Nacho non è quell’uomo. Allora, ecco il deserto, il luogo perfetto per ricordare il proprio nome, per riscoprire se stessi. Per capire chi si è davvero, se non si è né lupi, né scarafaggi, né pecore.
Nacho è tra incudine e martello, rock and hard place, in questo terzo episodio della sesta stagione di Better Call Saul. Tra due fazioni di criminali, ma soprattutto tra due scelte: fuga o morte. Il vento inizia a scuotere un fiore blu mentre all’orizzonte si levano rombi di tuono. La vita sarà recisa dalla troppa violenza della natura o la pioggia ormai prossima alimenterà la sua esistenza?
Nacho si ripulisce dal liquame, dalle lordure di un’esistenza criminale e si mette l’abito blu. Ha scelto cosa essere, il deserto glie l’ha sussurrato, gli ha rivelato il suo vero nome. Un fiore blu. Non un bel fiore in un bosco rigoglioso, una pecora al sicuro nel suo recinto. No. Un fiore blu che sceglie di attecchire nel terreno più duro, in quello stesso deserto. Così Ignacio si salva morendo. Attirando su di sé tutti i peccati del mondo, rendendosi agnello sacrificale per la vita del padre, per l’amore verso la famiglia.
Ecco il senso di quel fiore nel deserto, il monito a tutti, anche e soprattutto a chi quel deserto lo attraversa di continuo come Mike.
Se un senso c’è in tanto deserto morale questo senso va affidato alla fragile delicatezza di un fiore blu che grida amore e condanna i potenti, quegli “psicopatici sacchi di m**da” che non hanno umanità, solo brama di guadagni. Mike farà sue queste scelte, consacrerà la sua vita alla nipote seguendo l’esempio di Nacho. Anche lui non ha possibilità di scampo, non può semplicemente “chiamare la polizia”. Non è integgerrimo com’era suo figlio così come Nacho non lo è in confronto al padre. Mike può solo accettare di crescere nel deserto, tra tanto male e violenza, vestendosi di blu come un fiore che professa la bellezza amorevole di un nonno per sua nipote. Rifiuterà il guadagno e accetterà anche lui il sacrificio, morendo in quel deserto che non perdona il fragile quando ha davanti a sé un lupo.
In questo stesso deserto prima o poi dovrà passare anche Kim per scoprire chi è davvero e smettere di avere il piede in due staffe, di accettare di stare tra incudine e martello. Dovrà scoprire se è la donna che ammette che “uno dei giorni più belli della sua vita” (6×01) è stato quello che l’ha vista impegnata in due cause pro bono o la donna che si danna l’anima nel tentativo di umiliare Howard. In quel “What if” al minuto 17 di questa 6×03 c’è tutta la seconda Kim. È un “What if” eccitato, che fa pendant con il “Suppose” (“Supponiamo…”) e l'”Or… Or” (“Oppure… Oppure“) con cui si era chiusa la scorsa stagione mentre Kim e Jimmy ritrovavano affinità e intimità immaginando tante possibili pene da infliggere ad Howard.
La Kim più infantile con quell’aria furba e malandrina è la vera Kim o è solo un cartonato attraverso cui la donna vuole ravvivare e preservare l’amore per Jimmy? Solo il tempo ce lo dirà, solo il deserto potrà sussurrare a Kim la risposta. Quella risposta che Jimmy, pardon… Saul, ha già ricevuto e che permane, però, ancora solo il velo di ipocrisia e compromessi morali. “Fidati, stiamo facendo l’opera del Signore“, afferma il “pastore” Goodman, rivolgendosi a uno scettico Huell.
Alla domanda “Perché fai tutto questo?”, Saul non riesce ancora ad affermare senza ipocrisia “I did it for me“, come farà Heisenberg.
Si nasconde ancora dietro l’idea di farlo per il bene di alcune persone che “Tra qualche mese avranno una vita molto migliore“. Si riferisce naturalmente agli anziani che attendono il risarcimento per la truffa della Sandpiper: probabilmente se Howard verrà screditato (e con lui per riflesso la HHM) gli studi legali proveranno a chiudere il caso più in fretta per riacquistare lustro e autorevolezza ed evitare che la reputazione del loro avvocato di punta abbia riflessi negativi sulla causa.
Anche Saul dovrà, allora, completare il suo percorso, tornare in quel deserto per abbandonare definitivamente ogni ipocrisia, lui che è tra l’incudine e il martello: “Vuoi essere amico del cartello o vuoi essere una spia [rat]?”, lo incalza Kim. Il deserto è lì, terra di nessuno e terra di ciascuno, pronto a ricordare a tutti, a far conoscere a ognuno, il proprio vero nome. Là, a inizio episodio, c’era un fiore. Accanto a quel fiore è un vetro, già rappreso di sangue, residuo di un dramma teatrale che si è consumato e a cui assistiamo, terrorizzati, dolenti e infuriati, a fine episodio.
Quel fiore blu, a tragedia conclusa, rimane lì, scosso dal vento e pronto ad accogliere la pioggia. Quel fiore blu è lì a ricordarci che la vita, nel deserto, è possibile, perfino quella più pura e umile. A ricordarci che la vita sopravvive anche alla morte, alimentando semi rinnovati di speranza e fiducia nella possibilità che in mezzo a tanto deserto possa esserci anche un po’ di rabbiosa, ostinata, vivissima umanità. È la speranza che ci dà Better Call Saul, è la speranza che ci tiene in vita tutti, soprattutto in questi tempi difficili e assurdi.
Grazie, Michael Mando per averci regalato un’ultima grandiosa interpretazione in questo capolavoro chiamato Better Call Saul