Nel finale di Lost in Translation, successo cinematografico di Sofia Coppola, Bill Murray sussurra qualcosa all’orecchio della giovanissima Scarlett Johansson sullo sfondo di una Tokyo alienante ma che pure li aveva fatti incontrare e, per qualche istante, capire. Non sappiamo cosa si dicono i due perché le loro ultime parole sono consacrate all’intimità del momento. In questa 6×11 di Better Call Saul vogliamo partire da qui, da quel dialogo che ci è irrimediabilmente precluso, con Gene da un lato della cornetta e dall’altro, probabilmente, Kim.
Anche loro come i protagonisti del film della Coppola si erano incontrati, si era trovati e capiti sullo sfondo di un Albuquerque criminale e asfissiante. Per un istante, e forse più, quella distanza apparentemente insuperabile nella comunicazione era stata sconfitta: Kim e Jimmy avevano oltrepassato i pericoli di ciò che si “perde nella traduzione“, cioè il non detto, il sottotesto impossibile da esprimere soltanto a parole. Kim e Jimmy comunicavano nella corrispondenza dei gesti, nella complicità di un raggiro ben orchestrato, nel volersi bene, sempre e contro tutti.
Poi, però, è tornata la distanza.
Kim e Saul, una di fronte all’altro, si sono detti addio e lo hanno fatto senza riuscire a capirsi: perché Saul non poteva comprendere lo scrupolo morale di Kim, l’insostenibile peso dell’inganno. Per lui quel peso era leggerezza, sollievo nel poter essere se stesso, nell’essere Saul Goodman. Ecco allora l’incomunicabilità e di nuovo la distanza incolmabile che ci rende esseri soli e isolati.
Non sappiamo e forse non sapremo mai cosa si sono detti Gene e Kim ma una cosa è certa: non si sono capiti. Quella distanza, quel tremendo “lost in translation” non può essere vinto neanche da un’amore, o un affetto, che sembra essere sopravvissuto al tempo. Kim si è interessata al destino di Saul, ha chiesto, discretamente, cosa ne fosse di lui a Francesca. Ma, lo sappiamo, lo aveva detto la stessa Kim: “I love you too, but so what?“. “E allora?”. L’amore non basta quando la distanza comunicativa è diventata insuperabile. Una distanza evocata anche concettualmente: Gene nel freddo grigiore del Nebraska, Kim nel caldo vivace della Florida. Perciò, addio.
Questa 6×11 di Better Call Saul è un continuo gioco di rimandi, di specchi che si riflettono a vicenda riattualizzando situazioni già viste. L’ennesima attestazione di incomunicabilità con Kim getta Gene nello sconforto e nella rabbia: è la stessa condizione che avevamo visto nel finale della 6×09 quando dall’addio all’amata era nato il Saul Goodman di Breaking Bad. Ora, questo rinnovato addio, rintuzza la personalità di Saul, la ridesta dal torpore. Come allora la maschera era nata dall’abbandono di Kim così ora è questa nuova “separazione” a spingere Gene a riabbracciare la sua essenza.
Gene si riappropria di tutti gli elementi della sua precedente maschera: l’auricolare, il massaggiatore, le prostitute e il ricorso agli espedienti criminali.
Nelle figure di Jeff, il tassista, e di Buddy, la spalla, si rinnovano quelle di Walt e Jesse. Apparentemente saremmo portati a credere che Gene riprenda con le truffe perché il suo impero è crollato, come conferma Francesca. Ma lei stessa gli ricorda che i federali non si sono presi tutto, non “Quello che avevi con te e non credo fossero spiccioli“. Non lo sono, infatti: abbiamo visto più volte Gene maneggiare un bel sacchetto di diamanti. Ma allora qual è la ragione che lo spinge a tornare Saul, o meglio, Viktor?
La stessa che lo ha reso Saul la prima volta: la separazione da Kim Wexler. Gene così regredisce, torna Viktor “con la k” e con questo nome e questi inganni sembra quasi voler punire moralmente la sua Kim, ricordandole che se c’è un Viktor deve esserci (stata) una Giselle. Quella che ora la Wexler ha rinnegato. Un gioco di specchi, dicevamo, che riflettono in due realtà temporali: nel tempo di Breaking Bad Saul ignora i consigli di Mike scegliendo di puntare su Walt così come ora Viktor, testardamente, si ostina nella truffa nonostante le rimostranze di Jeff. Tanto malato di cancro Walt quanto la vittima di questo raggiro.
Nel primo caso l’azzardo non paga ed è Walt l’artefice indiretto dell’esilio di Saul. Ora Viktor sembra destinato alla stessa infausta sorte agendo mosso dalla rabbia. Così la fossa lasciata vuota dopo l’incontro con Walt e Jesse si materializza di nuovo sulla silhouette distesa di Gene anticipandone la morte simbolica.
Riflessi su riflessi.
Come quando Viktor, ormai privo di ogni scrupolo morale (se non lasciato all’intervallo di un momento), prova a convincere Buddy a proseguire nella truffa: “Poi passa, ok? Credimi, per favore. Dimenticherai tutto prima di accorgertene“. Parole molto simili a quelle che aveva detto a Kim nella 6×09: “Un giorno ci sveglieremo, ci laveremo i denti e andremo a lavoro e a un certo punto ci renderemo conto all’improvviso di non averci pensato per niente, a nulla, sarà allora che sapremo, sapremo di poter dimenticare“. Lui sì, può sempre dimenticare, può giustificare tutto, lasciarsi vincere costantemente dal compromesso morale. Ma non tutti quelli che gli stanno attorno. Non Kim, non Buddy, non Jesse. I soli tre in grado di sopravvivere al “veleno” di Saul Goodman. Fuggendo. Dicendo ‘no’.
Saul non li capisce, non può capire il loro tirarsi indietro perché c’è un abisso comunicativo tra loro, un “lost in translation” morale che fa fermare gli uni e non impedisce all’altro di andare avanti. Kim non vuole più far del male a chi le sta intorno, e come lei anche Jesse, memore della sua Jane. Ora è Buddy che si blocca di fronte a un uomo malato che non merita di essere truffato. A nulla valgono le giustificazioni di Viktor se non a produrre in lui stesso una rabbia smisurata all’ennesimo ‘no’ di Buddy. Quel ‘no’ che gli ricorda troppo l’addio di Kim.
Ed è la rabbia a non farlo più ragionare, a trasformarlo di nuovo in Saul e in qualcosa di “oltre” Saul. In una figura disumana che non vuole fermarsi davanti a nulla. Ecco allora un nuovo riflesso: Jeff, il tassista, nella 4×01 aveva guardato con curiosa cattiveria Gene e quest’ultimo aveva avuto paura. Ora, invece, nelle battute finali di questo episodio di Better Call Saul, in una scena perfettamente speculare la paura passa negli occhi di Jeff. Guarda verso Gene e ci scopre Viktor, con tutta la sua mostruosa crudeltà, quella di un uomo con cui è impossibile comunicare.
Non ha neanche più la furbizia da avvocato di pararsi le spalle.
Viktor agisce in prima persona come ai tempi di Slippin’ Jimmy, quando era un piccolo pesce in una angusta palla di vetro. Vuole essere Viktor nella speranza che si materializzi la sua Giselle, che tornino i tempi in cui poteva essere se stesso con a fianco l’amore della sua vita. Ma quel tempo è naufragato nel grigiore dell’incomunicabilità.
In Lost in Translation i due protagonisti si salutano una prima volta, impacciati e insoddisfatti. Poi però si rivedono tra la folla, si guardano, si stringono, si dicono addio catarticamente, accettando quel distacco, ritrovando ancora una volta, per l’ultima volta, ciò che sembrava perso nella traduzione. Chissà se sarà concesso questo ulteriore saluto finale anche a Jimmy e Kim: un saluto meno rabbioso, imbarazzato e distante. Un addio che sia accettazione, che possa far capire a Jimmy le ragioni di Kim e vincere così, solo per un attimo, per un istante appena, l’irrimediabile distanza che si produce nella traduzione dei sentimenti.