La recensione della 5×03 di Better Call Saul analizza l’episodio seguendo un filo rosso che è stato tracciato dallo stesso Vince Gilligan. Un filo rosso che attraversa due mondi.
C’è un momento in ogni opera di Vince Gilligan. Un attimo irripetibile. Si tratta di un confine, di uno spartiacque che, una volta oltrepassato, scompare alle tue spalle. La marea si solleva e non puoi far altro che continuare ad andare avanti, correre sempre più veloce per evitare che l’onda ti travolga.
Quel confine Saul l’ha ormai oltrepassato.
Si addentra nel nuovo mondo, al di là dello spartiacque, con curiosa incertezza. Quell’incertezza di chi chiede (e considera “parecchio”) appena 7925 dollari per prestarsi a un gioco d’illegalità. Lalo ne ha molti di più con sé, un pacco di contanti che può felicemente rimettersi in tasca.
Ma Saul imparerà a correre in fretta in questa nuova terra. Arriverà, infine, alla sfrontatezza di Breaking Bad, quella con la quale si fa beffe di Walt e Jesse al primo incontro. Quella con cui pretende cinquantamila dollari di onorario da entrambi per aiutare Badger a uscire da un brutto problema legale (2×08).
“Una volta dentro, sei dentro“. È Nacho ad accogliere Saul in quella terra di illegalità e possibilità. Un universo in cui tutti bramano il dolce cono gelato farcito di denaro. Pronti a spolpare le carni di chi è troppo debole (o stupido) per continuare il gioco. Ma in questa melassa di piaceri c’è anche il rischio di impantanarsi. Di finire come formiche annaspanti, attratte irresistibilmente dal nettare appiccicaticcio e da esso asfissiate. Sarà la fine di Saul, condannato a un mondo in bianco e nero dove la sua strabordante personalità si perde nell’anonimato.
Ma quel gelato a terra è anche simbolo di qualcos’altro.
Quando superi il confine, tutto il resto rimane dietro, a terra. Non hai più la libertà della quale ti eri tanti invaghito, quella di non rendere conto a nessuno. La libertà di scegliere di passeggiare con un gelato in mano. “Una volta dentro, sei dentro“. E Jimmy rimane fuori, rosicchiato da voraci compromessi e tanta illegalità. Perché serve il miglior Saul per sopravvivere.
Lo sa bene Nacho che quel monito sembra rivolgerlo come un dannato dantesco a sé stesso, senza nutrire più speranze. Tanto più ora che il padre ha rifiutato di scegliere la strada della fuga, non dandola vinta ai potenti. La casa di Varga piomba nella penombra, nel grigiore, di fronte all’integrità morale del suo genitore.
Tanto Nacho, quanto Saul e Mike, tragici protagonisti di Better Call Saul, sono affiancati da modelli positivi. Per Nacho è suo padre, irreprensibile difensore della giustizia, disposto a morire pur di non cedere ai criminali. Per Mike questa figura vive, invece, nel ricordo: è il figlio, l’unico integerrimo poliziotto scarnificato vivo da formicolanti, corrotti colleghi. Ma è anche l’ingegnere tedesco Werner Zigler, troppo debole e buono: condannato per non essersi lasciato alle spalle, come un gelato buttato per terra, l’amore.
Lui, quel gelato, voleva continuare ad assaporarlo.
Mike non sopporta neanche la vista di una cartolina di Sydney perché gli ricorda il racconto di Werner, quello del padre che realizzò il teatro dell’Opera nella città. Così, Nacho e Mike sono condannati a un mondo di illegalità perché “Una volta dentro, sei dentro“. Ma sono anche costretti a patire la colpa delle loro azioni attraverso l’immagine di chi non è come loro. Di chi ha saputo e sa dire “no” alla tentazione di un gusto troppo dolce.
Rimangono entrambi invischiati, tristi personaggi di un gioco più grande di loro. Sarà anche la fine di Saul. Lui ha come contraltare l’immagine positiva di Kim. Una donna che non ha mai realmente oltrepassato lo spartiacque ma ne costeggia i margini, come quella birra messa lì, sul bordo del balcone, intorno al minuto 14 di questa 5×03 di Better Call Saul. Kim viaggia a due velocità, scissa tra i casi pro bono che tanto le ricordano il nobile proposito che l’ha spinta a diventare avvocato e l’incarico pressante per la potente Mesa Verde.
Quella birra sull’orlo del balcone Kim decide di toglierla. Decide di parlare di Saul in terza persona, prendendone le distanze (“Buon per Saul”, afferma rivolgendosi a Jimmy). Si dedica ai suoi casi, rifiuta le chiamate della Mesa Verde. Ma alla fine cede, torna sul bordo e finisce per essere additata come benpensante dall’ultimo, ostinato proprietario che non vuole lasciare la propria casa per far spazio al call center della banca. Ma Kim non è un’ipocrita. La donna è realmente scissa tra il desiderio del bene e la necessità di guadagnare. E non c’è nulla di male in questo bisogno di stabilità.
Già, nulla. E allora quella birra ritorna sul bordo.
E inizia a dondolare pericolosamente nelle mani di Saul che stuzzica Kim dandole l’illusione che stia per cadere, che stia per perdersi. Ma è proprio lei alla fine a scegliere di lanciare la bottiglia, di sfogarsi ancora una volta tornando a fare un salto nella terra di mezzo di Slippin’ Jimmy e Giselle. E quel suo sorriso finale è il sorriso di chi, ogni tanto, giusto un po’, ama provare l’ebbrezza di mettere il naso nel far west al di là della Legge mentre nella mano trattiene il gelato ancora di qua, nel suo mondo.
Come una danzatrice, a lei è ancora concesso qualche piccolo, eccitante sgarro. Le è permesso assaporare un gusto un po’ più dolce del solito. Non a Saul che da tempo non è più Slippin’ Jimmy. Per lui ora il mare si è rialzato e l’onda inizia a gonfiarsi. E quei rari momenti in cui Kim si affaccia al di là della marea rappresentano ormai soltanto il labile tramite per un mondo che non gli appartiene più. Solo in quei momenti Saul si ricongiunge con Kim, il gelato non amato abbastanza da non lasciarlo cadere a terra.
A terra Kim, inevitabilmente, ci finirà perché il salto non può compierlo. Quella terra non è la sua terra. Di lei rimarrà solo il ricordo e l’immagine sbiadita. Lo scalpo divorato dai formicolanti crimini di un Saul sempre più compromesso. Sempre più compiutamente e vacuamente Saul Goodman.