Di Marilyn Monroe abbiamo sempre giurato di sapere tutto. Negli anni abbiamo collezionato, una a una, delle informazioni capaci di restituirci l’illusione di aver scavato dentro l’intimità di un mito, convinti del fatto che conoscere la sua turbolenta vita – e i suoi fantasmi – bastasse per potere affermare che sì: per noi la vita di Marilyn Monroe non conosceva alcun segreto. Ci abbiamo creduto in modo pretenzioso, quasi supponente. Attraverso le nostre finte consapevolezze abbiamo mantenuto in vita il suo mito, affermando ancora una volta che ciò di cui eravamo a conoscenza corrispondeva alla realtà dei fatti avvenuti tra gli anni ’30 e ’60. Su di lei abbiamo visto documentari, recuperato interviste, visionato qualsiasi tipo di documento. Perfino da morta, Marilyn era viva. La sua leggenda porta con sé il peso di essere, ancora oggi, sotto l’occhio attento dei riflettori, ma non in modo diverso a quanto lei abbia già conosciuto. Credevamo il contrario, ma non è andata così. Abbiamo creduto tanto, ci siamo illusi di saper tutto. Ma alla fine basta un film biografico ispirato alla sua vita per farci capire che no: noi, di Marilyn Monroe, non conosciamo assolutamente niente. Conosciamo il suo mito, l’immagine che di lei ci siamo creati, l’ideale che ci siamo costruiti. Come spesso accade quando si tratta di celebrità o figure storiche, ci discostiamo dal concetto di realtà e dimentichiamo cosa sia davvero necessario per poter scomodare un verbo così ambizioso come conoscere.
Conosciamo Marilyn ma non Norma, e questo è un dettaglio di cui dobbiamo prendere totale consapevolezza. Di cui Andrew Dominik, regista del nuovo film Netflix Blonde, deve prendere assoluta consapevolezza.
La domanda che ci si deve porre di fronte alla nuova pellicola Netflix, presentata alla 79esima edizione del Cinema di Venezia, non è se Blonde sia o meno un brutto film, ma se rispetti davvero le sue volontà, il suo obiettivo narrativo. Fin dalla sua promozione le premesse erano chiare: Blonde si poneva l’obiettivo di indagare all’interno della vita e dell’anima di Marilyn Monroe. Voleva scavare dentro il pozzo della sua esistenza e raccogliere dal fondo qualsiasi dettaglio che avrebbe potuto permetterci di instaurare un nuovo approccio che zittiva per un attimo il suo mito e, finalmente, faceva spazio alla sua anima. La base su cui poggiare questo obiettivo era valida: la pellicola è tratta da un romanzo che sviscera come meglio può le varie tappe esistenziali dell’attrice, ma nel concreto ciò non si realizza, e non si realizza perché Blonde fa lo stesso errore che abbiamo sempre fatto tutti: mette al primo posto, ancora una volta, il mito di Marilyn Monroe, pretendendo che ciò possa bastare.
La pellicola, troppo attenta nel riuscire a essere esteticamente impeccabile, dimentica quel che pretende da sé, restituendoci un’immagine di Marilyn che non si discosta da quanto già detto, scritto o visto. Non scava dentro la sua anima come aveva promesso, non chiede a Marilyn cosa davvero pensi o senta. La piazza semplicemente al centro della scena, e le chiede di pianger sopra ognuna delle sue disgrazie, dal padre assente alla madre malata, invitandola quasi a recitare e interpretarsi. Accade tutto in modo fisico, e le lacrime di Ana De Armas – ripetute per le due ore e cinquanta della pellicola – cercano di concretizzare il dolore della diva, la sua inquietudine, ma non basta un viso lacrimoso per scavare dentro la disperazione e l’anima di una vita complessa come quella che si sta cercando di raccontare e su cui da sempre vengono fatte congetture. Non basta neanche se si cerca di portare avanti una pellicola esteticamente ricercata e curata nei minimi particolari che mette in ordine i vari eventi passando dal bianco e nero ai colori scena dopo scena.
E’ chiaro che l’intento di Blonde sia quello di diventare il film di riferimento più intimo, ma per farlo avrebbe dovuto fermarsi e riprendere la storia senza forzare troppo la mano. Con naturalezza, avrebbe potuto mettere in scena un racconto che non si limitava al susseguirsi di eventi ma che, al tempo stesso, li accompagnava presentandoci davvero la persona, e non più il personaggio.
Come anticipato prima, la domanda non è se Blonde sia o meno un brutto film, perché è chiaro che non sia questa la realtà o la problematica. Esteticamente e tecnicamente Dominik non sbaglia un colpo, restituendoci un film Netflix che a primo impatto riesce a farsi notare per la sua estetica ma che, alla fine, non lascia nulla addosso. Le lacrime di Ana De Armas, e la sua eccellente interpretazione, non bastano per tirar fuori l’anima Marilyn Monroe. Va ricordato quanto, dagli anni ’60, questo non sia diventato altro che un nome che balza dalla nostra bocca al cervello perdendo quasi il suo significato individuale. Marilyn fa parte della nostra cultura, della nostra esistenza, ma ciò non la rende una cosa nostra da plasmare e idealizzare a nostro piacimento. E’ l’attrice che più ha anticipato i tempi e che meno si vergognava della sua inquietudine. Faceva parte di lei, non voleva nasconderla come il resto delle persone che le stavano accanto, o come il resto delle celebrità. Lei era Marilyn Monroe, ma non solo. Era più di un film sulle bionde o di una notte con il Presidente. Era il risultato di una vita in cui la solitudine l’ha perseguitata anche quando il mondo l’acclamava, la dimostrazione che non importa cosa facciamo, le ferite che abbiamo non dormono mai.
Blonde porta su Netflix gli eventi che hanno disintegrato la vita di Marilyn, gli amori turbolenti, Kennedy, sua madre, l’illusione di avere un padre. Porta tutto, porta il suo mito, ma non porta lei. E’ paradossale: nelle due ore e cinquanta non vi è alcuna scena senza la sua presenza, ma Dominik dà per scontate troppe cose che la riguardano lasciandoci solo con la sua disperazione, ma non con la sua parte più intima.
La sensazione che si ha è che Blonde non sia altro che un film Netflix di Marilyn Monroe e non su Norma Jeane Baker, nonostante questo nome venga ripetuto più e più volte durante la pellicola. L’obiettivo di Dominik era quello di creare una spaccatura facendo comprendere la doppia vita dell’attrice – Marilyn – e quella di Norma, ma in realtà non vi è un minuto in cui ci approcciamo davvero a lei. Anche in questo caso, Marilyn predomina sulla parte di Norma, rubandole totalmente la scena. Una pellicola che si pone l’obettivo di scavare a fondo non può commettere tale errore, e non ci sarà perfezione estetica che possa non far notare quanto accaduto.
Andrew Dominik è caduto nella stessa rete in cui erano caduti i registi dell’epoca, anche se questo non era il suo obiettivo. Senza rendersene conto, ha messo in scena il suo mito e ha dimenticato cosa ci fosse dietro questo, dando vita a un loop in cui Ana De Armas interpreta una Marilyn che interpreta se stessa. Per seguire le vere ambizioni della pellicola, Ana De Armas avrebbe dovuto interpretare Nora e la sua doppia vita, senza far prevalere la parte di Marilyn che conosciamo tutti basata su congetture, mito e finzione. Purtroppo la sensazione finale è la stessa che possiamo provare recuperando un film in cui Marilyn ha recitato: è lì, sta interpretando. Vediamo il suo mito, ma per il resto non ci rimane altro di lei.
Blonde si imporrà di certo come uno dei film Netflix più ricercati e ambiziosi. Diventerà la biografia più curata da un punto di vista estetico e tecnico della piattaforma, ma non potrà mai dire di essere la voce dell’anima di Marilyn Monroe. Se avesse estremizzato meno, dato spazio a più silenzio e si fosse concentrato sulla parte intima e non sul mito, Blonde avrebbe avuto grandi possibilità, diventando probabilmente il film di riferimento. Purtroppo, la voglia di essere grande gli ha tolto questa possibilità portandolo a cadere in una trappola oramai troppo grande per liberarsi.
Marilyn Monroe è Blonde, ma lo stesso non possiamo dire di Norma. Ancora una volta, il mito ha fatto fuori la persona, il personaggio ha fatto fuori l’anima. Per l’ennesima volta il suo ritratto ha vinto sulla sua reale immagine, facendoci comprendere che in realtà abbiamo sempre e solo ricordato un volto costruito e senz’anima di qualcuno che, alla fine dei giochi, si chiamava Norma Jeane Baker e un’anima la possedeva eccome.