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Caccia ai Killer convince ma non troppo: la recensione della docuserie Netflix

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Le docuserie stanno avendo sempre più successo. Lo sa bene Netflix, che negli ultimi anni ha visto proliferare documentari e docuserie di tutti i tipi sulla sua piattaforma: si va dalle interessantissime docuserie sull’alimentazione alle assurde docuserie sui gatti, da quelle pessime di cui non pensavamo di aver bisogno e che vorremmo dimenticare a quelle distruttive che ci lasciano col dubbio fino alla fine. L’ultima arrivata nella casa della N rossa è la forte Caccia ai killer, visibile in streaming dal 4 novembre. Docucrime non per stomaci delicati, racconta le indagini e le investigazioni degli addetti ai lavori che hanno catturato e assicurato alla giustizia alcuni dei più violenti e celebri serial killer americani.

Quella che potremmo chiamare “prima stagione” presenta attualmente quattro episodi, ognuno dei quali ricostruisce la cattura di un serial killer attraverso immagini di repertorio, ricostruzioni fittizie, interviste di archivio a vittime e investigatori che si sono trovati coinvolti nel caso. Un punto di vista diverso ed eccezionale per riscoprire figure spesso già conosciute da un punto di vista differente. Si tratta di casi particolarmente speciali, perché lo sguardo delle figure coinvolte è sempre molto coinvolto e appassionato. Sono casi che hanno avuto grandissima risonanza non solo a livello mediatico lungo tutti gli Stati Uniti, ma anche nelle vite degli agenti che hanno toccato con mano le conseguenze di questi efferati delitti.

Caccia ai killer: I casi della prima stagione

Il primo caso in esame è quello del celebre Green River Killer che negli anni ’80 ha terrorizzato le zone intorno a Seattle, uccidendo probabilmente più di 49 donne. Gary Ridgway, questo era il suo vero nome, prese il nomignolo dal fatto che gettasse i primi corpi nel fiume Green. Proprio dal nome del fiume, e del primo luogo di ritrovamento, si venne a creare la Green River Task Force, incaricata delle indagini. L’allora capo della Task Force, Dave Reichert, e molte altre persone coinvolte nel caso racconteranno i lunghi mesi delle indagini, che furono lunghe e molto complesse. Al punto che un altro celebre serial killer di quell’epoca, Ted Bundy, si offrirà di aiutare nelle indagini.

Gary Ridgway verrà arrestato solo nel 2001 e solo quando le tecniche di estrazione del DNA divennero più efficaci e riuscirono a collegare il violentatore di prostitute con Ridgway. Lo stesso Reichert scoppiò a piangere di gioia quando lo venne a sapere – nel frattempo, l’agente era diventato sceriffo e aveva subito non pochi problemi a causa delle indagini sul Green River Killer -, sottolineando ancora una volta il profondo filo rosso che lega questi incredibili investigatori ai loro incredibili casi.

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Il secondo caso, notevolmente più conosciuto, è quello di Aileen Wuornos la prostituta serial killer che adescava uomini per poi ucciderli. La sua storia è stata raccontata più volte – nel film Monster del 2003 con Charlize Theron e in American Horror Story: Hotel nel 2015 – e continua ad affascinare soprattutto per la relazione controversa che la Wuornos intrecciò con la cameriera Tyria Moore. Anche in questo caso le indagini previdero la creazione di una Task Force con a capo il capitano Steve Binegar, coadiuvato dal Detective Sergente Brian Jarvis.

In questo caso il periodo degli omicidi fu molto più breve (dal 1989 al 1990) e le vittime accertate furono 7. La Wuornos stessa confessò gli omicidi e confessò anche di voler continuare a uccidere, probabilmente anche a causa dei numerosi traumi avvenuti nella sua vita. Nonostante la precarietà mentale fu comunque considerata capace di intendere e di volere, condannata poi a morte per iniezione letale ne 2002. Una figura inquietantemente affascinante anche perché pose sotto il riflettore forse per la prima volta l’idea di un serial killer donna ma anche dell’area grigia che c’è tra violenza e sofferenza.

Il terzo e quarto episodio si dedicano invece allo stesso caso: quello di Keith Hunter Jesperson, chiamato anche Happy Face Killer. Anche lui operativo più o meno negli anni ’90, venne ribattezzato con questo nomignolo per via degli smiles che lasciava nelle sue lettere per le autorità o i media. Condannato all’imprigionamento a vita per 8 vittime accertate, ha confessato più di 185 omicidi lungo tutti gli Stati Uniti. Anche la sua storia è stata raccontata più volte, come nel film franco-canadese Happy Face Killer del 2013.

Il caso Jesperson fu travagliato e complicato già dal primissimo momento, poiché l’attenzione dei media al primo cadavere fu inizialmente catturata da una falsa confessione che fece andare Jesperson su tutte le furie. Al punto che lo stesso serial killer prima scrisse la confessione seguita da una happy face in un bagno pubblico, poi inviò una lettera di sei pagine al Oregon Journal. Fu proprio un giornalista del giornale, Phil Stanford, che decise di chiamarlo con quel nome dopo aver visto gli smiles nella lettera. Il Detective John Ingram, incaricato al caso, racconta degli istanti in cui vide la primissima vittima e capì subito che si trattava di un caso particolare.

Caccia ai killer: un punto di vista diverso

Come abbiamo già sottolineato, la particolarità di questa docu-serie sta nel punto di vista: i serial killer sono sempre figure disturbanti ma affascinanti e raramente ci si interessa ali aspetti diciamo “tecnici”, alle fredde indagini che ne hanno portato alla cattura. L’idea quindi di partire dalle interviste reali e concrete a chi per primo si occupò delle indagini è interessante perché non solo restituisce uno sguardo diverso delle vicende ma anche uno sguardo autentico, scevro delle mitologie che talvolta circondano questi personaggi.

Questo punto di vista poi tende a ri-contestualizzare la figura del serial killer e attirare lo spettatore più verso la vittima – o le vittime, in questo caso anche gli stessi investigatori coinvolti – portandoci a una visione più distaccata ma anche più ampia, che abbraccia anche il periodo storico preso in considerazione. La docuserie ricostruisce le indagini attraverso interviste, ma anche immagini di repertorio e ricomposizioni ad hoc dei processi agli stessi assassini, non indugiando quindi su elementi di fiction o di romanzo.

Punto di vista: punto di forza e punto di debolezza di Caccia ai killer

Paradossalmente, se l’idea di partire da un punto di vista rovesciato è da una parte il punto di forza di questa docuserie, dall’altra è senza dubbio la sua debolezza principale, risultando in episodi dalla carica poco attrattiva.

Sicuramente è giusto spogliare i serial killer dalla loro aura semi-mitologica per ricondurli al contesto investigativo di cui sono oggetto, eppure il mero sguardo poliziesco da l’impressione di limitare troppo il raggio di azione del racconto. Il risultato è una serie di episodi dopotutto pure troppo brevi – la media è di 35 minuti – che espongono la pura realtà indagatoria senza aggiungere riflessioni pure interessanti e professionali in campo psicologico, ad esempio, o psichiatrico e sociologico. Ci sono migliaia di serie tv che indagano l’intricata psicologia degli assassini seriali, è vero, ma sarebbe stato sicuramente interessarne avere un assaggio più realistico e formale nel campo della docuserie.

Questa mancanza si riflette anche dal punto di vista degli investigatori che, seppur raccontando in alcuni punti l’impatto che il determinato caso ha avuto sulle proprie carriere, non si spingono mai troppo oltre nel regno del personale. Cosa che pure ci saremmo aspettati essendo loro la vera chiave di volta degli episodi. Così, non troppo approfonditi in termini di psicologia né dal punto di vista dei serial killer né degli addetti ai lavori, gli episodi rimangono piuttosto freddi.

Ovviamente è troppo presto per dirlo, le prime recensioni sulla serie non sono ancora uscite e dopotutto rimane una docuserie interessante per gli amanti del genere.

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