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Christian, la recensione dei primi due episodi della nuova serie Sky

Christian
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Christian, la nuova produzione Sky (figlia dell’ampliamento di canali di cui vi abbiamo parlato qui), debutta ufficialmente il 28 gennaio. Siamo stati all’anteprima e siamo rimasti molto colpiti: non solo dal cast stellare, ma soprattutto dall’atmosfera gioiosa che trasmettevano tutti i professionisti coinvolti nel progetto. La serie si propone di essere una scanzonata ma drammatica rivisitazione della figura del gangster in chiave cristiana: la serie ha tutti i requisiti per dare un colpo di spugna alla retorica trita e ritrita della fiction alla Don Matteo.

I primi due episodi di Christian delineano un quadro che si potrebbe definire, forse con un leggero azzardo, neo neo-realista: a fare da sfondo alle vicende del bulletto di periferia che si scopre baciato dal Signore una Roma cupa, oscura, popolata da individui pittoreschi e disperati.

Christian è uno scagnozzo del signorotto locale del malaffare, Lino, una figura a metà tra il sanguinario boss e l’amorevole fratello: entrambi hanno condiviso l’amore di Lina, madre adottiva di Christian, donna devota che, nei suoi accessi di Alzheimer, dimentica spesso con chi ha a che fare.

Come per molti figli della periferia, il destino di Christian sembra segnato: è bravo a fare a botte, troppo bravo. La sua esistenza sembra sacrificata in funzione del male superiore, è una sorta di angelo vendicatore, esattore delle tasse, braccio armato della (anti) legge e, più semplicemente, un fijo de na mign**ta.

Il suo destino, che sembrava cristallizzato nello spaccare teste e mantenere lo strano ordine che impongono le mafie, cambia quando sulle mani di Christian spuntano due stimmate. Il ragazzone che sapeva solo picchiare si scopre capace di compiere veri e propri miracoli: come resuscitare Rachele, una prostituta sua vicina di casa che alterna un buco a una contrattazione sul proprio corpo.

L’incontro tra sacro e profano è da sempre materia di dialogo e anche di scontro culturale: in Christian il tema centrale è proprio il sempreverde adagio “il Signore opera per vie misteriose”. E infatti il personaggio centrale di questi primi episodi, oltre al protagonista, è proprio il suo apparente contraltare: Matteo, un inviato dello Stato vaticano venuto a indagare la natura dei miracoli e, soprattutto, l’identità del presunto nuovo Messia.

Proprio come Christian affronta una (forzata) metamorfosi, accettando la sua nuova natura di salvatore e provando a vedere se stesso in un’ottica diversa dal castigatore, anche Matteo si evolve da rappresentante di Dio in giustiziere sommario. I due rappresentano due facce della stessa medaglia: da un lato chi, anche per ignoranza, ha sempre conosciuto e venerato il male.

Dall’altra chi, nonostante la sua cultura e la sua fede, non esita a mostrare il braccio armato della parola del Signore, usando tutti i mezzi a disposizione (non sempre moralmente candidi) per arrivare al suo scopo.

Lo scopo di Matteo non sembra tanto dimostrare la veridicità o meno dei miracoli di Christian, quanto dimostrare che Christian è un impostore perché, se fosse così, sarebbe la riprova che la religione è materia che interessa solo chi è già buono.

Christian

Per un malvivente che si scopre capace di alleviare le sofferenze e non solo di causarne, c’è una Chiesa che non accetta di vedere del buono anche dove la luce del divino sembra non poter arrivare. Il Cristo delle periferie scopre che il marcio che lo ricopre è solo uno strato di sudiciume da togliere e che, sotto, può nascondersi qualcosa di diverso e di migliore. L’inviato per conto di Dio, invece, nasconde molti più strati di quelli che mostra, a partire dalla cicatrice che gli solca il viso.

La battaglia tra bene e male a cui Christian sembra alludere già dalle prime puntate si gioca in un campo martoriato da guerre tra bande e piagato da povertà e abbandono. L’immersione nelle periferie romane, con la legge del più forte a farla da padrone e la violenza come unico linguaggio, è realistica, coinvolgente e cruda.

Christian è anche una riflessione sull’abbandono delle periferie e sui disagi che interessano le ultime estremità della Città Eterna. Una riflessione che non può non nascere, sotto il cielo plumbeo e minaccioso che caratterizza la messa in scena.

Si intuisce anche una certa vena di ironia, in Christian: per quanto possa essere minaccioso e letale, l’improbabile Messia è pur sempre un romano doc e i romani, da che mondo è mondo, hanno sempre replicato a miracoli e disgrazie con la stessa ricetta, l’ironia.

Le prime puntate di Christian convincono: si preannuncia una serie che sicuramente farà scuola, se non altro per il coraggio di aver provato, finalmente, a creare qualcosa di nuovo e non scontato. Il ritmo narrativo è alto e alterna momenti di azione ad altri più riflessivi che delineano chiaramente i rapporti tra i personaggi, i conflitti e le caratteristiche di ognuno.

Convincono anche le performance, su tutte quella, immedesimata e realistica, del protagonista Edoardo Pesce: si percepisce quanto crede (è il caso di dirlo) in questo personaggio e quanto se lo sia cucito sulla pelle. Ottima, ma non c’è da stupirsi, anche la prestazione di Claudio Santamaria nei panni di Matteo: ce lo ricordavamo eroe a malincuore in Lo chiamavano Jeeg Robot, qui è un personaggio a metà tra il villain e il mentore, sottile e implacabile come un angelo vendicatore.

Splendono anche le interpreti femminili, vero colore e anima di queste puntate cupe: Lina Sastri nel ruolo di Italia, madre adottiva di Christian e Silvia D’Amico, la prostituta resuscitata che potrebbe diventare la discepola numero 0 del nuovo Messia.

La commistione di crime, religione e ironia funziona e fa ben sperare che le puntate successive siano all’altezza delle aspettative. Non resta che scoprire se Christian è davvero il Messia che Roma merita, ma non quello di cui ha bisogno.

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