I miti, le leggende, i racconti e, in generale, il folklore tramandato nel tempo sono alcuni degli elementi che formano l’affascinante cultura di un popolo. Chupa si rifà proprio a una delle figure più iconiche della tradizione dell’America Latina, ovvero il chupacabra. Sarebbe una misteriosa creatura che si nutre del sangue delle capre come farebbe un vampiro. Del resto, il nome vuol dire proprio “colui che succhia le capre”. Nonostante non ci siano testimonianze attendibili e, anzi, molte di esse erano suggestioni create dagli horror, c’è chi sostiene che siano dei rettili umanoidi verdi o grigi che saltano come canguri, oppure altri li descrivono dalla forma canina – anche se spesso i cani nudi messicani venivano scambiati per i chupacabra. Comunque sia, nella leggenda è una bestia spaventosa, un animale intimidatorio che non vorremmo mai incontrare la notte mentre banchetta con il nostro bestiame. Un materiale perfetto per Guillermo Del Toro, insomma.
Chupa, invece, ne trasforma radicalmente l’esteriorità, eliminando gli aspetti fisici più spaventosi e inquietanti.
Nel film Netflix, Jonas Cuaron – il figlio del ben più noto Alfonso Cuaron – lo rende un dolce e tenero cucciolo dai curiosi occhi color ambra, con delle goffe ali azzurre che ancora non sa usare, che ulula tristemente alla sua mamma e che risulta un adorabile mix tra un gattino, un koala e un grifone (ricorda, in un certo senso, il giaguaro alato Pepita di Coco, film animato che affonda anch’esso le radici nel folklore sudamericano/messicano). È chiaro che questo stravolgimento ci permette di empatizzare maggiormente con la creatura, ma viene da chiedersi: se il chupacabra fosse stato sgradevole, Alex l’avrebbe comunque aiutato? O sarebbe stata giusta la sua cattura? Certo, il messaggio della crudeltà umana nei confronti di un essere indifeso che, sebbene ritenuto pericoloso, cerca solo di sopravvivere non viene meno. Ma così si ripropone l’idea del bello e buono da un lato e del brutto e cattivo dall’altro.
È pur sempre vero che nessuno si allontana dal sinonimo bellezza uguale bontà, pur millantando un’inclusività che, di fatto, non c’è. Forse i più piccoli si sarebbero spaventati, come successe in Harry Potter e la Camera dei Segreti con il Basilisco – non è una citazione casuale, perché uno dei produttori del film Netflix è Chris Columbus – ma poteva essere un’ottima occasione per insegnare loro ad amare al di là delle apparenze e dell’aspetto esteriore.
Ma, tralasciando questo e il fatto che vorremmo portarci a casa quell’adorabile cucciolotto, ciò che è davvero importante è che cosa rappresenti il chupacabra per il protagonista, Alex.
Se dal punto di vista di Richard Quinn è un animale da sfruttare e da quello dei notiziari e della popolazione locale è una storia spaventosa, per Alex è il veicolo attraverso il quale si sente parte di qualcosa di più grande di lui, trasformando così un mito popolare in un racconto intimo. Il ragazzino, infatti, si sente costantemente solo. Suo padre è morto, a scuola viene bullizzato per essere in parte messicano e tutto ciò che riesce a fare per combattere la solitudine è allontanarsi ancor di più da quella cultura familiare di cui si vergogna, perché i suoi compagni lo fanno vergognare. A casa porta questa frustrazione che sfoga sulla madre, risentendosi del viaggio a San Javier perché:
“Non mi interessa il Messico, ok? Non mi interessa la musica. Non mi interessa il cibo.”
E, poi, nessuno a Kansas City parla spagnolo. Si immerge totalmente nella popcult degli Stati Uniti e in quel Game Boy dove si rifugia quando vuole scappare dal confronto e dal dolore. Solo per rendersi conto, una volta in Messico, che ai suoi cugini piacciono le solite cose. La stessa Luna lo rimprovera quando è sorpreso che sia ossessionata dai Beastie Boys dicendogli: “Pensi che i messicani ascoltino solo mariachi?”. Nel corso del film Netflix, essi legano molto mentre si prendono cura del nonno, prima di trovare Chupa. Non sono mai cattivi al di là delle piccole prese in giro, riescono a comunicare nonostante le barriere e Alex si rende conto di avere gli stessi pregiudizi dei suoi bulli. Mentre si connette con Luna e Memo, inizia anche a connettersi con il passato della sua famiglia e con l’importanza che la Lucha Libre (ovvero uno stile di wrestling messicano) gioca nelle loro vite. Sebbene ancora acerbi, i giovani attori si destreggiano bene l’un con l’altro e con Demián Bichir, l’interprete del perfetto nonno Chava. Lui ama i suoi nipoti, comprende che Alex sta soffrendo e prova ad aiutarlo a guarire o, quanto mento, ad aprirsi.
Perché, se il dolore è un qualcosa di personale, è anche vero che può essere capito da quelle persone accanto a noi che ci amano e che l’hanno subito. Riconoscendo ciò, si fa un passettino in più nel grande percorso chiamato crescita.
Alex si rende conto dell’importanza della condivisione, di aprirsi e affrontare il dolore per poterlo superare, senza nasconderlo o ignorarlo. Fondamentale, oltre ai cugini e al nonno, è proprio quella creaturina di nome Chupa. Come Alex, anche il cucciolotto sta solo cercando di riunirsi con la sua famiglia; il paragone tra i due non è sottile, ma funziona perfettamente per un film Netflix indirizzato a bambini e pre-adolescenti, dove essi imparano – e a noi più grandi viene ribadito – l’importanza della famiglia, dell’eredità, del trovare orgoglio nella propria storia e, soprattutto, dell’essere sempre sé stessi.
Ed è inevitabile che il nostro pensiero vada al film di Steven Spielberg di cui Chupa sembra un adattamento in salsa messicana: E.T. l’extraterrestre. Lo stesso Cuaron non ne nasconde le influenze:
“Sono sempre stato un grande fan di E.T. e penso che queste storie siano così potenti perché giocano con l’idea dei giovani incompresi dagli adulti. Chupa può anche essere un mostro, ma è l’unico che capisce cosa Alex sta passando. Il legame tra i due è così puro, come con un animale domestico, che trascende il linguaggio”.
Come Spielberg, in Chupa Cuaron ha preso qualcosa di spaventoso e l’ha trasformato nel nuovo migliore amico fantasy di tutti – e qui si spiega anche il perché l’abbia reso più bello di come viene solitamente rappresentato. La connessione tra Alex e Chupa nella stalla, l’imparare a cantare e ululare assieme, Memo che insegna al cucciolo a volare riportano alla memoria le indimenticabili scene di ET. Certo, non potrà mai raggiungere la sua cura formale (la CGI non è perfetta, ma comunque adatta al suo pubblico) e intensità, ma riesce comunque a commuovere e intrattenere coloro che, senza troppe pretese, lo vogliono per circa un’ora e mezzo su Netflix. E non dimentichiamoci di Jurassic Park, il cui poster è appeso nella camera di Alex. Il Richard Quinn di Christian Slater, cattivo al punto giusto, è chiaramente ispirato all’Alan Grant di Sam Neill, sfoggiano delle specifiche simili quando lo vediamo la prima volta.
Chupa non sarà dunque il film perfetto, ma riempie di speranza e positività e usa la fantasia per raccontare in maniera diretta e semplice una storia sulla cultura e la famiglia, ricordandoci che sono le basi su cui costruire la nostra identità, luoghi problematici alle volte, ma contemporaneamente i porti sicuri nel quale affrontare le prime dolorose tempeste della vita.