Al cinema dal 18 aprile, Civil War è l’ultima pellicola diretta da Alex Garland, dopo film come 28 giorni dopo, Ex machina e Annientamento e il pioneristico Devs. Attraverso un’America spaccata dalla guerra civile, il film porta sullo schermo una riflessione sulla guerra, sull’umanità e sull’enorme potere che le immagini e il giornalismo detengono nel raccontare gli orrori che ci circondano. Ma quando l’etica e l’amore per il proprio lavoro finiscono e inizia il fanatismo sfrenato?
Acclamato dalla critica come uno dei migliori film dell’anno, Civil War non può essere contenuto in un solo genere: film di guerra, ma anche distopia non poi così lontana, dal taglio semi-documentario e road movie con l’obiettivo di raggiungere Washington prima che il Presidente sia ucciso.
Civil War – La trama del film
Mentre le forze secessioniste di Texas e California hanno oramai accerchiato Washington e si preparano a occuparla, il Presidente (Nick Offerman) nega la realtà dei fatti e millanta ancora vittorie e grandi battaglie. Fuori dalle mura della Casa Bianca, intanto, la popolazione vive di stenti, dilaniata da un conflitto armato. Quella che vediamo è un’America distrutta, in cui carcasse di automobili in fiamme, corpi giustiziati, fosse comuni e molti altri orrori si accumulano l’uno sull’altro.
In questo quadro desolante, Lee Smith (Kirsten Dunst), Joel (Wagner Moura), Sammy (Stephen McKinley Henderson) decidono di partire alla volta di Washington D.C. con un piano ben preciso. Fotografare e intervistare il Presidente prima che le linee difensive del governo abbattano la Capitale.
Lee è una stimata fotoreporter di guerra, indurita dalla vita e dagli orrori a cui ha assistito. Ma quando salva la vita di Jessie (Cailee Spaeny), sua grande fan e aspirante fotografa di guerra, tutto cambia. Jessie è giovane e vuole seguire le sue orme, così riesce a unirsi al gruppo e partire con loro alla volta di Washingto.
Nel lungo viaggio on the road, questo team di fotoreporter e giornalisti vedrà con i propri occhi gli orrori a cui l’umanità può spingersi. E dovrà decidere se l’etica e il proprio lavoro valgono il prezzo per la propria umanità.
Washington è caduta e la democrazia occidentale è un fallimento
Cinema e fotografia hanno in comune qualcosa che è contenuto nel loro stesso nome: le immagini. Mescolando cinema e istantanee scattate dai suoi protagonisti, Civil War offre una lucida riflessione su quanto il confine tra umano e disumano sia facilmente valicabile.
E mostra con grande chiarezza quanto la democrazia occidentale stia fallendo su tutti i fronti. Questo Presidente che è al suo terzo mandato, cela un velato riferimento ai tiranni del passato e del presente. Mussolini, Hitler, Trump.
E come questi personaggi, anche il Presidente nega l’evidenza dei fatti, narrando di grandi vittorie e trionfi, mentre la realtà è ben diversa. Nella sua America, non c’è più controllo. Fanatici delle armi si improvvisano giustizieri (Jesse Plemons vi farà accapponare la pelle). Intere città distrutte dalle granate, mentre in altre la vita scorre apparentemente tranquilla, perché si preferisce non prendere alcuna parte nel conflitto.
Non ci sono eroi in Civil War
E, in questa baraonda di caos e orrori, salda e sicura del proprio lavoro c’è Lee Smith. Indurita dalla guerra e tormentata dagli orrori a cui ha assistito. Interpretata da una magistrale Kirsten Dunst, ritornata sulle scene dopo una pausa dal mondo del cinema. Per Lee documentare con estrema attenzione, fotografare anche la più aberrante tortura è l’unico modo perché gli esseri umani si ricordino di cosa sono capaci. “Non indignarti, scatta e documenta affinché altri possano farlo” dice a una confusa e spaventata Jessie, dopo che la ragazza ha assistito alla prima mattanza.
Ma non c’è eroismo o patriottismo nelle sue azioni e in quelle degli altri componenti del gruppo. Joel (interpretato da Wagner Moura, il Pablo Escobar di Narcos)è ossessionato dal suo desiderio di intervistare il Presidente ed è disposto a tutto pur di riuscirci. Ancora si emoziona a vedere i bagliori degli incendi notturni, come fossero fuochi d’artificio e poco importa che i soldati che hanno trucidato un ex compagno ferito siano dalla parte giusta. Per una sigaretta e un bicchiere di buon whiskey siamo tutti dalla stessa parte.
Sammy è forse la bussola morale della squadra: lui è tutto ciò che resta del New York Times, funge da monito e da legame con un passato ormai perduto. Infine, c’è Jessie: vivace, piena di sogni e con l’obiettivo di seguire le orme di Lee.
Attraverso il loro rapporto, Garland realizza un passaggio di testimone, dal primo salvataggio all’ultimo tragico scatto. E mostra il viaggio – in direzioni opposte – che le due personagge svolgono. Se Lee attraverso Jessie recupera l’innocenza dello stare dietro e davanti a un obbiettivo fotografico, Jessie l’abbandona rapidamente, iniziando una discesa negli inferi e nell’orrore da cui non risalirà più come prima.
Non c’è salvezza per questo gruppo di personaggi. Sacrificandone in parte la profondità – i protagonisti risultano piatti quasi come le fotografie che scattano – Garland li rende quasi degli archetipi che accompagnano il viaggio del pubblico nella storia di una guerra civile che sembra più vicina che mai
La potenza delle immagini e di un sound design pazzesco
Se i dialoghi del film sono poveri, scarni e alquanto banali, la riflessione di Civil War è tutta affidata alle immagini e a un sound design pazzesco. A curare la fotografia c’è Rob Hardy, affiancato dalla mano ferma e fredda del regista nel girare le scene più cruente.
Con un taglio quasi documentaristico, Garland si tiene a distanza e mostra ciò che accade sulla scena in contemporanea ai suoi personaggi. In un incastro di obbiettivi fotografici, campi e controcampi, ci viene restitutita una visione della realtà che potrebbe non corrispondere del tutto al vero. Perché, sottolinea Garland, è questo il potere delle immagini e di chi le veicola: possono mostrarci la realtà, ma non tutta. E, soprattutto, possono essere facilmente strumentalizzate per raccontare la propria visione del mondo.
Oltre alle immagini, Civil War si affida a un sound design curato da Glenn Fremantle (Gravity). I silenzi assordanti si alternano ai rumori della guerra, agli scoppi delle bombe e alle grida. Tutto collabora a creare un’atmosfera di morte e ad aumentare il caos. Insieme al regista Fremantle ha preso la saggia decisione di limitare al minimo l’utilizzo della musica, incorporandola solo in alcune scene dal grande impatto emotivo.
Grazie a tutti questi elementi, Civil War permette al pubblico di interrogarsi, di sobbalzare e di non staccare gli occhi dallo schermo. Perché la realtà che viene proiettata in sala è quella in cui stiamo vivendo oggi, anche se ancora non ce ne rendiamo conto.