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Conversazioni con un Killer: il Caso Dahmer – La Recensione: il mostro in prima pagina

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Avviso alla lettura: per chi non conosce affatto la storia di Jeffrey Dahmer, questo articolo contiene spoiler!

“Goodbye grey sky, hello blue ’cause nothing can hold me when I hold you feels so right it can’t be wrong, rocking and rolling all week long”.

Happy Days, 1974, Jeffrey Dahmer aveva 14 anni. Milwaukee ospitava nella finzione una delle sit-com che hanno fatto la storia della televisione e l’allora adolescente Dahmer che avrebbe fatto la storia, macabra e vergognosa, dei serial killer. Conversazioni con un Killer: il Caso Dahmer è la docuserie crime che segue a poco più di 2 settimane dall’uscita Dahmer-Mostro: La Storia di Jeffrey Dahmer, sempre su Netflix. Il mostro riprodotto e il mostro reale. Estratti di registrazioni delle conversazioni tra Jeffrey Dahmer e uno dei suoi avvocati difensori Wendy Patrickus. Più di 32 ore registrate tra luglio e ottobre del ’91. Solo la voce calma e sufficientemente monocorde di Dahmer contro l’inquietante somiglianza fisica di Evan Peters che lo interpreta nella serie. Mostro riprodotto vs mostro reale? Chi vince? In Conversazioni con un Killer: il Caso Dahmer, il serial killer cerca di raccontare i suoi demoni fumando e bevendo caffè, ammanettato al tavolo della stanza dei colloqui. Nella serie il suo doppio artistico ci proietta nelle sue fantasie tramite le lenti dei suoi occhiali da miope.

Conversazioni con un killer: il caso Jeffrey Dahmer (932×524)

Prima parte – Sympathy For The Devil

Wendy Patrickus è al suo primo incarico importante e sarà lei a registrare la lunga confessione di Jeff, come lo chiama ancora oggi. Lei per lui sarà Wendy. I nomi di battesimo servono per stabilire la connessione necessaria per affrontare una situazione che implicava momenti di forte disagio e angoscia. Wendy non deve far trasparire neanche un breve attimo di giudizio, di repulsione, di disconoscimento di quanto Jeff le racconta. É cordiale nei modi e non ha remore nella sua narrazione che “è come cercare di sollevare una pietra di due tonnellate da un pozzo”. Wendy si troverà spesso la pietra sul suo petto nei momenti in cui Jeff si addentra nelle descrizioni dei suoi omicidi, a partire dalla prima vittima, l’autostoppista Steven Hicks. Un Jeffrey Dahmer 18enne in un’estate di profonda depressione, solitudine, noia a causa della separazione dei suoi genitori, che di fatto lo hanno lasciato da solo, inizia a dare corpo alle sue fantasie.

Il suo desiderio di controllo, di possedere nel senso più ampio che possiamo mai intendere, lo porta al primo omicidio e a mettere in atto le sue aberrazioni sessuali, la necrofilia. In un clima da Flirting with Disaster mentre stava guidando per andare a sbarazzasi del corpo smembrato di Hicks, viene fermato dalla polizia che crede alla sua motivazione di ragazzo in crisi per il divorzio dei genitori, che non riesce a dormire e che di notte va a buttare l’immondizia. Jeff si scopre così anche ottimo manipolatore. Andando a vivere dalla nonna riesce a reprimere le sue pulsioni sessuali, sostituendo i soggetti con oggetti, un manichino al posto di un ragazzo. Riuscirà nell’intento per 9 anni fino a quando, sollecitato da uno sconosciuto in biblioteca che gli lascia un biglietto con un’offerta di prestazione sessuale, inizia a frequentare il Club Bath (locale d’incontro per gay). Inizia a usare le benzodiazepine sciolte negli alcolici per trattenere più a lungo i ragazzi che aggancia e soprattutto poter fare ciò che vuole con loro. Il secondo omicidio, frutto di un blackout alcolico, è il punto di svolta per il destino di Jeff e principalmente delle sue prossime vittime.

Seconda parte – Can I Take your Picture?

Jeffrey Dahmer non riusciva a essere Jeffrey Dahmer, mai completamente. Combattuto tra i suoi demoni interiori, le pulsioni sessuali deviate, il costante senso di vuoto che lo costringeva a cercare sempre qualcosa in più. Allora chi essere? L’Imperatore di Star Wars il Ritorno dello Jedi, mettersi delle lenti a contatto che cambiavano i suoi occhi di un azzurro slavato in un giallo intenso. Identificarsi in altro perché essere come era non lo rendeva felice, si sentiva sempre di più vicino alle forze maligne che lo attraevano, in grado di “compiere la volontà del diavolo invece che di Dio”. Il diavolo certamente lo assiste, perché quando viene arrestato per molestie sessuali verso un minorenne (che poi si scoprirà essere il fratello di una futura vittima), nonostante la perizia psichiatrica che lo giudica come soggetto pericoloso, il giudice gli concede il regime di semilibertà prima e di libertà vigilata poi.

Con la stessa pacatezza che ha la sua voce in Conversazioni con un Killer: il Caso Dahmer, la bestia convince il giudice che voleva solo fare delle foto e nient’altro. “Un posto carino e privato dove poter portare qualcuno, drogarlo e strangolarlo”, così Jeff descrive a Wendy la necessità di andare a vivere da solo e lasciare la casa della nonna. Il “posto carino”, l’appartamento 213 negli Oxford Apartment aveva come arredamento anche un bidone di plastica in cui scioglieva nell’acido i resti dei corpi che non voleva conservare, un pentolone da ristorante da 300 litri dove bolliva i corpi smembrati, sorvegliati da una lampada lava anni sessanta con il suo oscuro contenuto fluido. Wendy che dovrà andare nel suo “posto carino” afferma che il demone che aveva dentro era invece in bella mostra nel suo appartamento.

Terza parte – Evil or Insane

American Horror Story
Conversazioni con un killer: il caso Jeffrey Dahmer (640×360)

17 ragazzi morti, smembrati, collezionati, mangiati. 17 vite interrotte e portate via alle loro famiglie. Può non essere considerato un essere maligno chi afferma di voler provare a trasformare le vittime in zombie, trapanando loro il cranio e iniettandogli nel cervello una siringa di acido muriatico? Un maligno fortunato quando il ragazzo laotiano Konerak fugge dal suo appartamento, dopo il primo tentativo di lobotomia, e i poliziotti gli permettono di riportalo a casa credendo alla storia del litigio tra fidanzati, senza preoccuparsi di indagare oltre, senza controllare l’appartamento dove avrebbero trovato il corpo di Tony Hughes, la vittima numero dodici, sul letto.

Un ragazzo incapace di reggersi in piedi, in evidente stato confusionale, chiaramente minorenne. Aveva 14 anni ed è stato restituito al suo carnefice, perché era la parola dell’unico bianco presente contro quella delle testimoni afroamericane che avevano chiamato la polizia. Maligno o pazzo. In Conversazioni con un Killer: il Caso Dahmer, ascoltando le descrizioni delle crudeltà che aveva compiuto, la pacatezza con cui ne parla, Dahmer ha il classico profilo del serial killer disturbato ma con peculiarità mai viste neanche nella più esagerata serie crime. Un vicino di casa di Dahmer che lo aveva preso in simpatia lo descrive come un Clark Kent. Un solitario con zero scambi sociali che non tollera l’isolamento in prigione e chiede di essere trasferito tra i detenuti comuni e decretare così la sua morte. “Voglio sapere perché sono quello che sono” lo dice a Wendy, l’avvocato che gli ha fatto da confidente, da madre, da sorella, da psicologa nelle oltre 32 ore di racconto.

Dahmer che mangia le sue conquiste perché vuole trattenerle con sé il più a lungo possibile. Dahmer che dice ai Detective che lo arrestano “Perché non mi spari subito per quello che ho fatto?”. Dahmer che manipola le persone e fa di tutto per non farsi arrestare. Dahmer che acquista un freezer da 150 litri perché “si stava preparando ad altro”. “…Nothing can hold me when I hold you”, niente può trattenermi quando ti stringo. Era il 1974 e Dahmer aveva 14 anni, sapeva già di essere omosessuale, si sentiva diverso ma non solo per quel motivo. Forse immaginava già che la sua vita e quelle di chi avrebbe incontrato non avrebbero avuto giorni felici.