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Country Queen: la Recensione del primo, ambizioso, drama keniota di Netflix

Country Queen
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La prima serie tv keniota di Netflix è arrivata venerdì 15 luglio inaugurando un ciclo di investimenti nello spettacolo africano coraggioso da parte della società di streaming. Attraverso lo sguardo di una protagonista femminile, Country Queen presenta un intreccio delicato di trame che mettono in scena l’equilibrio di un Paese che, almeno in Occidente, è pressoché ignorato. L’inizio del sodalizio artistico parte con una storia difficile, dunque, sia da raccontare che da comprendere. L’equilibrio in questione è quello tra i kenioti e le corporazioni locali, interessate al profitto dei giacimenti minerari. Il primo progetto africano co-prodotto e distribuito da Netflix (qui trovate le altre novità in arrivo) – decisa ad acquisirlo davanti all’elevata qualità del pilot – parte con una storia di denuncia e di impegno sociale difficile da digerire. Una vicenda cruda, ma interessante, che trascende il semplice intrattenimento da salotto. Corruzione, divisioni urbano-rurali e il ruolo delle donne nella società sono i temi centrali che la serie co-prodotta insieme a Good Karma Fiction e Tililiz Pictures, con il supporto di DW Akademie, vuole indagare con sei puntate, offrendo una prospettiva privilegiata: quella interna.

L’inizio di un nuovo sodalizio seriale tra il colosso dello streaming e l’Africa parte da ottimi presupposti e con un progetto davvero promettente (che compensa i problemi più grandi della piattaforma). Infatti Netflix ha annunciato di aver firmato un memorandum d’intesa, soprattutto con il Kenya, per supportare i talenti e la capacità di produzione del Paese, e del continente stesso. Il progetto nasce sia per offrire al resto del mondo una rappresentazione più sfumata e più profonda del Kenya moderno, sia per garantire ai kenioti un intrattenimento reale e lontano dalle narrazioni stereotipate ed edulcorate. Country Queen sancisce quindi un cambio di prospettiva decisivo e originale nel panorama seriale della piattaforma. Girata in inglese, swahili e un mix di altre lingue locali, la storia è autentica, innovativa e ben lontana dalle narrazioni sull’Africa a cui siamo stati abituati. Come ha affermato Nkateko Mabaso, il direttore delle licenze Netflix in Africa:

Vogliamo mostrare, non solo raccontare, quanto siamo impegnati ad assicurarci che le storie keniote trovino un posto dove brillare sulla scena globale.

Nkateko Mabaso

Un intreccio complicato, che parte da Akisa.

Akisa

La protagonista è Akisa (Melissa Kiplagat), una donna indipendente, ambiziosa e forte che gestisce un’impresa di organizzazione di eventi a Nairboi. La donna è originaria di un villaggio, Tsilanga, da cui è fuggita anni prima per lasciarsi il passato alle spalle. La malattia improvvisa del padre, Mwalimu, la costringerà però a tornare e a scontrarsi con l’ostilità della sua famiglia e la diffidenza dei locali. Intanto, proprio in quelle terre, Eco Rock – una società mineraria guidata dalla “serpe” di nome Vivienne – ha scoperto l’oro e vorrebbe impossessarsi dei terreni a discapito dei residenti. Akisa è la porta tra due mondi. Il nodo principale di un intreccio narrativo complesso, sfumato e doloroso. Sebbene le premesse quasi scontate, però, sarà sempre più difficile tracciare un taglio netto tra buoni e cattivi.

Da un lato abbiamo “il progresso”, cioè la vita della capitale dove Akisa vive a fianco di coloro che posseggono le compagnie che minacciano sia l’ecosistema, sia il sostentamento dei loro connazionali. Dall’altra parte, invece, abbiamo il Kenya rurale, incarnato da Tsilanga, il luogo da cui proviene Akisa. Al suo ritorno, la protagonista troverà un villaggio diviso tra chi è corrotto, chi cerca di sopravvivere come può e i pochi che cercano di ostacolare lo sfruttamento delle risorse e delle persone stesse (e dei bambini), come il suo ex ragazzo. Akisa ha quindi un duplice compito nella storia, una vicenda che può essere definita come un dramma familiare con un dichiarato intento di denuncia. La donna dovrà affrontare due sfide: il ritorno al suo passato, scontrandosi con la famiglia che circa dieci anni prima l’aveva allontanata, e cercare di salvare Tsilanga dagli interessi delle società corrotte.

Una storia per niente semplice da esaminare.

Country Queen

Country Queen è una storia spietata, piena di angoscia, ma che sa offrire una prospettiva privilegiata. Il pregio più grande della serie Netflix, infatti, è quello di offrire un caso di studio realistico sulla corruzione del Kenya, raccontata dal Kenya stesso. Country Queen è una storia difficile e sfumata, piena di posizioni contraddittorie, valori incerti e ambiguità morale. All’interno della serie, però, non c’è posto per “l’uomo bianco cattivo” né per “l’uomo bianco caritatevole”, tranne qualche traccia con le telefonate tra Vivienne e gli investitori in Svizzera. A partire da Akisa, infatti, è difficile comprendere le azioni dei suoi familiari, dei suoi collaboratori, come Jay, della sua stessa madre, del suo amante o dei suoi compaesani. Individui che cercano di condurre le proprie vite come possono, tra compromessi, errori, scorrettezze e rinunce. E in cui non c’è sempre posto per gli ideali.

Country Queen è dunque un progetto ambizioso, scritto, realizzato e prodotto da kenioti con il supporto del colosso dello streaming che ha lasciato loro piena libertà creativa. La scrittura dei personaggi, infatti, mira a raccontare personalità reali in grado di riflettere la complessità del Paese. Nel reparto scrittura, ad esempio, Lydia Matata ha dichiarato di essersi assicurata di offrire una rappresentazione onesta, soprattutto della componente femminile, andando anche controcorrente, scrivendo personaggi come Vivienne (Nini Wacera), la spietata dirigente di Eco Rock; come la madre di Akisa, dipinta come una strega dai familiari stessi, i quali vogliono sottrarle le terre per venderle a Eco Rock; oppure il giornalista, tentato di sacrificare uno scoop in cambio della cura per la fertilità che lui e sua moglie non possono permettersi. “È stato davvero liberatorio poter scrivere personaggi che non devono necessariamente essere un annuncio per il servizio pubblico. Sapere che sono solo in viaggio e che, anche se vanno in posti scomodi, dobbiamo accettarlo”, ha detto Matata. Kamau Wa Ndung’u, il produttore, ha dichiarato invece di aver voluto portare sullo schermo una rappresentazione variegata e mai manichea della complessità del Paese:

Le persone erano stanche del glamour. La sensazione era che la vita non funzionasse così: c’è il glamour, ma c’è anche l’oscurità.

Kamau Wa Ndung’u

Non c’è posto per il glamour né per il pietismo.

Country Queen inizia nel glamour, nelle feste e nello sfarzo di Nairobi, per poi mostrarci cosa c’è dietro l’oro, ma senza scadere in pietismi. Il racconto è asciutto e lapidario. Non prende posizioni, non punta il dito, ma si limita a mostrare. La decisione di non ricorrere al doppiaggio per lasciarci avvolgere dalla complessità linguistica del Kenya, poi, aumenta il grado di autenticità del racconto stesso. Abbiamo l’impressione di sentirci parte di una realtà che noi occidentali conosciamo troppo poco. Il cast, infine, è una garanzia: ci ammalia a partire dagli interpreti principali – come Melissa Kiplagat, Nini Wacera, Blessing Lungaho (Maxwel) e Melvin Alusa (Kyalo) – fino a quelli di supporto, come Nyokabi Macharia (Ivy), Mumbi Kaigwa (Esther), Sheila Munyiva (Anna) o Raymond Ofula (Mwalimu). Vincent Mbaya, il regista della serie, ha dichiarato:

Siamo così abituati a vedere altre persone sui nostri schermi, quindi spero davvero che questo si traduca in una celebrazione di chi siamo, una celebrazione della nostra cultura, delle nostre lingue e delle nostre personalità. So che è solo un graffio sulla superficie.

Vincent Mbaya

L’industria cinematografica keniota, infatti, deve affrontare diverse restrizioni. L’attore Arthur Sanya (Sense8), ad esempio, è una delle tante voci a raccontare che i registi connazionali non sono sempre liberi di approfondire determinati problemi a causa di numerosi divieti che soffocherebbero gli stimoli creativi. Il progetto firmato Netflix, infatti, potrebbe essere una svolta per l’industria seriale del Paese, come afferma l’attore: “questo potrebbe essere un momento decisivo per lo show business keniota perché si iniziano ad affrontare dei temi che non sono stati mai affrontati prima, come l’amore, l’accaparramento di terre e la corruzione”. Il produttore Ndung’u, inoltre, ha affermato che ci sono voluti più di cinque anni per far decollare Country Queen. Un lungo periodo trascorso solo alla ricerca di investitori. “Il Kenya è in una fase di transizione critica dal punto di vista politico, sociale ed economico” – come afferma il regista – “e Country Queen è un’opportunità importante”.

Country Queen offre una prospettiva nuova che apre la mente su una realtà complessa e – al pubblico occidentale – poco nota.

Netflix Kenya

La serie merita quindi di essere guardata perché la storia è potente, sebbene crudele, e il cast è strepitoso. Eppure, da un punto di vista prettamente narrativo, sei puntate da un’ora potrebbero essere superflue. Se a brillare è la rappresentazione delle questioni sociali, è la storyline a soffrire di più. Sembra quasi di assistere a un docu-film di sei ore senza respiro e senza espedienti intriganti, capaci di catturarci nella vicenda. Un meccanismo più documentale che seriale che non riesce a sorprenderci. Una narrazione complessivamente lineare – sebbene alcuni flashback e visioni interessanti – dove a trascinarci è solo il fascino della storia. In più occasioni, infatti, la serie rischia di sembrare un documentario di inchiesta in versione filmica che racchiude troppe trame – amori, conflitto, lavoro minorile, politica, tradimento e corruzione – che seppur ben intrecciate, affaticano la visione. Sembra quasi che i produttori abbiano cercato di infondere più elementi del dovuto per raccontare il più possibile il Kenya, all’interno però della stessa trama. Un difetto comunque trascurabile che, ci auguriamo, verrà risolto nella già annunciata seconda stagione.

Difetti tecnici a parte, si tratta di una storia nuova, narrata e recitata con passione. Una serie che va vista con calma, magari cogliendo l’occasione di approfondire la delicata questione socio-politica del Paese. Il merito più grande del progetto, senza dubbio professionalmente maturo, è l’intenzione di diffondere delle autentiche storie africane che invitino a cambiare prospettiva e a pensare fuori dagli schemi. Un merito che, unito alla bravura del cast e alla bellezza della colonna sonora, ci porta a promuovere a pieni voti Country Queen.

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