Si può davvero adattare un fenomeno di culto mantenendone l’essenza originale? Nel caso del live action di Cowboy Bebop la risposta purtroppo è no. D’altronde le premesse non erano certo semplici considerata la “sacralità” di un anime come, appunto, quello creato da Shin’ichirō Watanabe.
Nel 2071, i viaggi iperspaziali sono una realtà e i cowboy del futuro attraversano la galassia per riscattare le taglie di innumerevoli fuggitivi. Tra questi nuovi cacciatori di taglie troviamo Spike Spiegel, ex assassino in fuga, e il suo socio Jet Black, che a bordo della nave spaziale Cowboy Bebop si muovono da un pianeta all’altro guardandosi raramente indietro. Al loro duo si aggiungono presto altri singolari personaggi: Faye Valentine, femme fatale senza memoria e con un’ossessione per il gioco d’azzardo, Radical Ed, una hacker giovanissima e geniale, e il corgi Ein. Sempre in viaggio per riscuotere una nuova taglia, i personaggi sono chiamati a confrontarsi spesso con i fantasmi del proprio passato e con i ricordi di una vita dimenticata. Quattro completi sconosciuti, più un cane, che si sentono finalmente parte di qualcosa di unico e raro dando vita non solo a una ciurma sbandata ma a una vera e propria famiglia. Le storie del Cowboy Bebop vengono raccontate attraverso un occhio filosofico e profondo che dona spessore e cuore a un anime diventato cult.
E allora come fare? Come riuscire a replicare il successo di un prodotto che si staglia orgoglioso e inattaccabile? Semplicemente non si può, ed è qui che risiede l’errore del live action di Cowboy Bebop convinto di poter riuscire nell’impresa. La serie tv risulta ben fatta, siamo di fronte a un progetto visivamente ambizioso ma allo stesso tempo vuoto. Se vi stavate aspettando un adattamento dignitoso dell’anime del vostro cuore, consideratevi delusi.
ATTENZIONE! La recensione che segue potrebbe contenere spoiler. Vi consigliamo di tornare a visione ultimata.
La trama del live action si muove quasi identica a quella dell’anime. Eccetto alcune differenze, più o meno evidenti, la storia rimane sempre quella: Spike (John Cho), Jet (Mustafa Shakir) e Faye (Daniella Pineda) viaggiano a bordo del Cowboy Bebop in cerca di taglie da riscuotere e criminali da portare in galera, il tutto arricchito da dettagli sul loro passato fumoso e sui segreti che portano con sé. In questa versione della storia manca la figura di Radical Ed se non in quel cringissimo finale, di cui avremmo volentieri fatto a meno. Il punto è che l’adattamento di Cowboy Bebop non sbaglia ad allontanarsi dalla trama originale e non sbaglia neppure nel cercare di raccontare la stessa storia ma in maniera diversa. L’errore del live action risiede in quella convinzione presuntuosa di aver capito il cuore dell’anime e per tale motivo potersi prendere certe libertà. Alla fine però, dopo dieci episodi, appare abbastanza chiaro come la serie tv non abbia capito nulla di Spike e compagnia bella.
Cowboy Bebop risulta in un adattamento stereotipato, campy e vuoto ma rimane una buona serie tv di fantascienza.
Gli elementi che avevano reso Cowboy Bebop un anime unico nel suo genere (pulp, noir, fantascienza e western tutti fusi insieme), nel reboot vengono piegati al servizio di una serialità più mainstream e alla mano, capace di conquistarsi la massa. Ecco quindi la commediola spicciola della Disney, la quota LGBTQ+ (possibile ma non necessaria), le corse alla Fast and Furios, il drammone shakespeariano e chi ne ha più ne metta di stereotipi. I primi episodi, tutto sommato, scorrono in maniera piacevole strizzando l’occhio ai nostalgici e attirando l’attenzione del pubblico più giovane e ignaro. Alla fine della corsa, tuttavia, sono solo i secondi a pagare il biglietto per un altro giro.
Ancora una volta ci tengo a precisare come non siano le differenze il problema ma come queste differenze acquisiscano peso nella narrazione generale. Se l’anime costruisce un intero episodio sulla distinzione tra Betamax e VHS, solo per alleggerire il tono di una storyline alquanto intensa, il reboot decide di riscrivere un’altra storia con un magnate russo, una truffatrice lasciva e Jet alle prese con il balletto della figlia. Già, la figlia di Jet è senza subbio un’altra differenza di cui avremmo potuto fare a meno. Akim è ridotto a dogsitter e l’intelligenza artificiale che acquisisce coscienza viene sacrificata per sottolineare, per l’ennesima volta, quanto Spike soffra per amore. E se gli eventi ritoccati e confezionati con una carta nuova possono essere perdonati, di certo lo stesso non si può dire della trasfigurazione dei personaggi.
Space Cowboy sei davvero tu? Perché a me sembri più John Cho vestito da Spike Spiegel a una convection dell’anime.
Il live action stravolge le storie di numerosi personaggi, da Akim a Londes, da Vicious a Spike stesso. L’antagonista per eccellenza viene allora ridotto a macchiettistico villain da fumetto, con tanto di denti digrignati e occhi fuori dalle orbite. Mi aspettavo da un momento all’altro che comparissero le vignette sopra di lui. Del misterioso e inquietante Vicious non è rimasto nulla, di fronte a noi appare un essere senza spina dorsale che batte i piedi per terra e indossa la parrucca di Lucius Malfoy. A sua volta, Julia è un oggetto di scena, un personaggio tanto sacrificato quanto dimenticabile quando, all’interno dell’anime, rappresenta invece la quest ultima del nostro cowboy. Sembra di assistere a un cosplay di gruppo. Sono tutti bravi a recitare la parte si, ma nessuno comprende il personaggio e lo fa suo.
Faye Valentine non esiste, non c’è traccia della femme fatale sardonica, approfittatrice ma irrimediabilmente sola e spezzata. Jet sembra, in parte, salvarsi e regalare alcun momenti piacevoli salvo poi essere ridotto a spalla del protagonista, figura di padre assente e burbero d’eccezione.
Se guardi Spike Spiegel ti viene un po’ in mente Clint Eastwood, cioè quell’immagine di cowboy dal cuore d’oro nascosto sotto il sorrisetto e lo sguardo penetrante. Sigaretta in bocca, completo elegante e capello ribelle sono elementi iconografici che servono a dare forma ma non voce al personaggio di Spike. Quella è solo la maschera dietro la quale possiamo scorgere un uomo complesso, tormentato e in continua lotta con il passato, ma anche un uomo capace di perdonare, ridere, ascoltare e comportarsi da eroe, quando vuole. Lo Spike dell’anime è un personaggio che non si comprende mai del tutto, che si muove sulla scena con estremo carisma e dal quale non riusciamo a togliere gli occhi di dosso. Proprio come Clint Eastwood. Eppure, né il pistolero dagli occhi di ghiaccio né il cowboy spaziale hanno bisogno di sforzarsi per risultare così magnetici, il loro è un talento naturale. Le battute sono dette al momento giusto e il gesto eroico compiuto senza pensarci.
Nel reboot, invece, Spike è un personaggio scritto su un pezzo di carta. I manierismi ci sono tutti e la somiglianza è incredibile ma non basta. I dettagli servono ma non sono tutto, non sempre almeno, e se manca il cuore allora l’intera costruzione finisce per crollare su se stessa. Questo Spike fa il ganzo ma non lo è davvero, quello che vediamo sullo schermo non è un cowboy ma un manichino che veste i suoi abiti e lo imita alla perfezione. Tutto quello che resta è un ex assassino, che muore d’amore, che usa i suoi amici e se ne infischia, che mente, languisce nel suo dolore e dice battute che non sanno di nulla.