ATTENZIONE: l’articolo contiene spoiler su Dante, il film di Pupi Avanti approdato lunedì 22 maggio su Sky!!
Quando penso a lui, nonostante la sua straordinaria grandezza, lo immagino sempre come un ragazzo. È Sergio Castellitto a parlare, dando voce a un pensiero di Giovanni Boccaccio, che poi è, prima ancora, una considerazione di Pupi Avati. C’è il regista bolognese dietro la camera da presa di Dante, la pellicola cinematografica che sognava di portare sul grande schermo da più di vent’anni. Il film con Sergio Castellitto (su Sky è ancora disponibile quel gioiello dimenticato di In Treatment) e Alessandro Sperduti nei panni dei protagonisti è approdato nelle sale a settembre 2022, ma era stato presentato in anteprima a Roma a giugno, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La prima versione del film, che si basa sul libro di Boccaccio Trattatello in laude di Dante, era stata scritta da Avati nel 2003. Sono passati dunque vent’anni dalla “prima pietra” di Dante, che è uno dei progetti a cui il regista si è sempre mostrato più affezionato. Lo scrittore fiorentino ha esercitato su di lui grande fascino, al punto da spingerlo a scrivere un libro, L’alta Fantasia, il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante, da cui il film che è ora disponibile su Sky attinge gran parte del suo copione. Pur detestando la figura di Dante Alighieri ai tempi delle scuole superiori – come, d’altronde, gran parte degli studenti italiani -, Pupi Avati ha confessato di aver riscoperto solo più tardi l’inestimabile valore del poeta. Un valore che il regista ottantatreenne ha cercato di trasporre nel suo lavoro.
Il rispetto e l’amore per l’opera di Dante trasudano da tutta la pellicola.
Non è un film sulla Divina Commedia e neanche un film propriamente biografico. Dante è un viaggio, un cammino a ritroso. Un omaggio di uno scrittore all’altro, di un regista a due esponenti illustri della nostra letteratura. Siamo nel 1350, quindi circa trent’anni dopo la morte del Sommo Poeta. I Capitani di Or San Michele incaricano Giovanni Boccaccio di mettersi sulle tracce di suor Beatrice, l’ultima figlia di Dante Alighieri, e di portarle dieci fiorini come risarcimento per le pene subite dal padre quando era ancora in vita a causa delle decisioni della città di Firenze. Boccaccio, che è lo scrittore grazie al quale conosciamo l’opera di Dante come la Divina Commedia, si incammina verso il Monastero di Santo Stefano degli Ulivi, a Ravenna, per incontrare la figlia del poeta e portarle le scuse della città. Da qui si dipanano quindi due filoni narrativi, che per tutta la durata del film si inseguono e si incastrano: da una parte c’è la ricerca di Boccaccio, ansioso di razziare quanti più particolari possibili sulla vita privata dello scrittore, dall’altra c’è un Dante Alighieri giovane, immortalato tra le vicende della sua storia personale e le fugaci ispirazioni che diedero vita all’opera che gli ha reso imperitura fama.
Dante non è un film sulla Divina Commedia e non vuole esserlo.
Il poema rientra di riflesso nella narrazione, ma non è il focus a cui Avati ha riservato i riflettori. A svettare sulla scena è l’immagine di un uomo tormentato e ispirato, di un ragazzo che ha sofferto le pene d’amore e che ha dovuto ingoiare una serie di delusioni personali che ne hanno segnato lo sfortunato percorso. Il regista bolognese non voleva restituirci l’immagine cattedratica di un Dante Alighieri austero e solenne, forse anche pedantesco. La sua idea era quella di metterci difronte a un ragazzo angustiato e nervoso, distrutto dalla morte della donna amata e perennemente in conflitto con l’autorità. Dante Alighieri, prima di diventare l’immagine stampata su tutti i libri di letteratura nei secoli a venire, è stato un figlio orfano di madre, un soldato spaventato, un amico pieno d’entusiasmo, un politico audace e un fiero avversario del Papa. Ma, soprattutto, un uomo con un’infinità di fragilità. Pupi Avati ce lo mostra intento a completare la sua Commedia con la speranza di avere un lasciapassare per tornare a Firenze. Dante era convinto che la sua città natale, dopo la pubblicazione di un’opera tanto grande, lo avrebbe riabbracciato e riaccolto tra le sue braccia. Invece morì solo, malato e lontano da casa.
È a quel torto che la città di Firenze volle riparare con la missione di Boccaccio.
A interpretare lo scrittore fiorentino, il primo grande dantista della storia, è un Sergio Castellitto che si cala nel ruolo di un altro uomo tormentato, afflitto dalla malattia, dalla grandezza del suo modello di ispirazione, dall’importanza della missione che gli viene affidata. Castellitto e Alessandro Sperduti rappresentano un po’ la giovinezza e la maturità della figura dello scrittore. Entrambi angustiati, afflitti, oppressi dalla smania di dover trasformare in parole stati d’animo indefiniti. Entrambi a caccia di una risposta nella penna. Dante è, da questo punto di vista, un film che non ti aspetti. Il rischio di inciampare su una tematica così delicata e così vasta come l’opera di Dante Alighieri era alto. Ma Avati si tiene a debita distanza dai toni inutilmente celebrativi e cerca invece di scoprire il lato più umano e fragile del Sommo Poeta. Con questa pellicola, il regista bolognese ha dato ulteriore conferma della propria versatilità. Non è un film di fine carriera, non ci somiglia affatto. È piuttosto un omaggio delicato a una figura verso cui ci sentiamo tutti quanti riconoscenti. La cura dei dettagli è un aspetto al quale la regia ha dedicato molta attenzione. La ricostruzione storica è molto accurata, si percepisce l’intervento di storiografi, filologi e studiosi che hanno prestato il proprio contributo al progetto. Dante è stato accolto con reazioni tutto sommato positive, sia da parte della critica che da parte del pubblico. Una fetta di spettatori ha storto il naso per la mancanza di pathos della pellicola, focalizzata troppo sulle vicende personali del poeta che non sui suoi versi, che pure meriterebbero centinaia di pellicole omaggio. Ma forse proprio per questo, Pupi Avati ha scelto di non addentrarsi eccessivamente nell’opera di Dante, ma di sfiorarla appena, per non restarne risucchiato e per lasciarci tastare il lato umano del poeta.