Ogni sabato sera, sempre alle 22.30, vi portiamo con noi all’interno di alcuni tra i momenti più significativi della storia recente e passata delle Serie Tv con le nostre recensioni ‘a posteriori’ di alcune puntate. Oggi è il turno della 5×10 di Doctor Who, l’episodio con Vincent van Gogh nonché uno dei 5 episodi chiave per scoprire la serie culto britannica.
Quando entri al museo d’Orsay ti rendi subito conto di essere in uno dei musei più importanti al mondo. Ti rendi conto che dentro e dietro ogni tela c’è il percorso infinito dell’arte nei secoli, nei millenni di storia che hanno portato fino a lì. Hanno portato fino a quei quadri, magnifico punto finale di un percorso tutto umano. Al museo d’Orsay assisti al rapido movimento d’allegria e confusione del Bal du moulin de la Galette di Renoir, all’infinita pace malinconica di Monet che oltrepassa il quadro, che attraversa il quadro distruggendone le cornici, spezzandone i limiti e investendo ogni cosa. Al Museo d’Orsay c’è tutto l’uomo con la sua confusa, dolorosa vitalità, con quel sublime senso di afflizione lieta.
Ma tutto questo lo capisci davvero, lo cogli davvero soltanto quando arrivi lì, quando arrivi alla piccola sala dedicata a van Gogh.
Quando ti fai largo tra i curiosi, appassionati, emozionati spettatori di un’arte che racchiude un uomo -che dico- ogni uomo e vedi le sue opere a un palmo di naso. E allora subito ti torna in mente la sublime, toccante 5×10 di Doctor Who (qui La classifica dei 10 viaggi nel tempo più commoventi delle Serie Tv). E ti tornano in mente le parole del dottor Black in chiusura di puntata, quando afferma che “Quello strano uomo selvaggio che vagava nei campi della Provenza non è stato solo il più grande artista del mondo, ma anche uno dei più grandi uomini che abbia mai vissuto“.
Van Gogh va semplicemente oltre le pennellate impressioniste degli altri. Va oltre quella natura maestosa, paurosa e infinita degli altri. Van Gogh supera l’impressionismo, rompe le norme di una corrente che a sua volta aveva già abbattuto il canone pittorico. Per questo non venne capito. Ebbe a dire il critico Albert Aurier, uno dei primi ad accorgersi del valore di van Gogh, che “Sarà completamente compreso soltanto dai suoi fratelli, gli artisti“. Perché van Gogh era troppo semplice e troppo raffinato per la gretta, perbenista società borghese dell’epoca. Troppo sensibile.
Ma la bellezza, ce lo ha insegnato Doctor Who, in un modo o nell’altro trova sempre modo di farsi largo. L’autenticità dei quadri di van Gogh, quella sua infantile e insieme altissima forma espressiva ci tocca tutti, riesce a colpirci pure senza sapere nulla di lui. Ci rende tutti suoi fratelli. Il grande merito di questo toccante episodio di Doctor Who è quello di restituirci l’uomo afflitto ma sempre lieto, come lui stesso amava ripetere, che era van Gogh. Ne vediamo lo slancio vitale, l’instancabile produzione pittorica, la bontà immensa ma anche i suoi tormenti, l’agitato confondersi dei suoi pensieri, le tensioni interiori.
C’è una summa di van Gogh nella 5×10 di Doctor Who.
Di quell’uomo che si era messo a contatto con gli ultimi, allontanato dalla Chiesa perché reo di aver preso “troppo alla lettera il modello evangelico”. Nei suoi Mangiatori di patate, nella Testa di contadina con cuffia bianca c’è tutto il naturalismo di Zola, la critica sociale di chi aveva vissuto fianco a fianco agli ultimi, lui stesso fattosi ultimo.
Van Gogh è l’insieme di tanti uomini che vivono contemporaneamente in lui. Guardando i suoi quadri, guardando lui, afflitto ma lieto, vediamo lo slancio spirituale di un Dante, l’impossibilità di ricongiungimento col cielo di Petrarca, la sublime magnificenza di un quadro di Caspar David Friedrich, la naturalezza di Monet, lo schiamazzo dinamico di Renoir. Ci sono uomini su uomini che vivono in van Gogh ma c’è anche l’unicità di un dolore che diventa colore, che diventa luce. Riprendendo di nuovo le parole di Black in questo episodio di Doctor Who: “Il dolore è facile da rappresentare, ma usare la collera, il colore per rappresentare l’estasi, la gioia e la grandezza del mondo… nessuno lo aveva mai fatto prima e forse nessuno lo rifarà mai“.
È questo che rende unico van Gogh eppure così vicino a tutti noi: riuscire a vedere il mondo, e l’uomo, per quello che è nel profondo, nella grandiosa, sublime natura che si riavvolge su se stessa e dona mortale pace in una Sera foscoliana. E, pure, nello stesso tempo cogliere quella sorta di metafisica subatomica che Oppenheimer, decenni dopo, vedrà agitarsi potente e immortale nella sua testa e nell’universo che lo circonda.
Quella forza wertheriana della natura e del cosmo che non si ferma mai, che sferza il mondo nei vortici celesti di una Notte stellata.
Come afferma Doctor Who: “Non c’è niente di così straordinario come le cose che vedi“. Van Gogh in questo episodio è l’unico in grado di vedere il Krafayis, l’alieno che semina distruzione, espressione dell’angoscia interiore ma anche della solitudine di chi si è smarrito per sempre.
In questa dolorosa, materialistica, tremenda bellezza del mondo van Gogh riesce a vedere anche l’uomo, che finisce nei vortici celesti, che diventa lui stesso vortice. Nel meraviglioso autoritratto conservato al museo d’Orsay e visibile in questo episodio di Doctor Who c’è la resa insuperabile di un artista che è andando oltre l'”impressione”, che ha trasformato quell’impressione in un’emozione tutta personale, soggettiva, dolorosa e l’ha gettata su tela riuscendo a rappresentare quello che si credeva impossibile: l’interiorità dell’uomo.
Nello sfondo astratto, nell’assenza di dettagli ambientali ci sembra di tornare al corteo di Teodora e Giustiniano della basilica di San Vitale dove la quinta scenografica dorata eleva la scena nella sua atemporalità e universalità. E ancora ci sembra di leggere la Vita Nova di Dante e il Canzoniere di Petrarca in cui ogni dettaglio ambientale è assente e la rappresentazione della donna diviene momento fuori dal tempo, in cui il mondo scompare e non esiste altro che la bellezza angelicata ma dolorosa di un amore.
Nel suo autoritratto van Gogh non è più van Gogh e non è più nel suo tempo ma nel nostro e in ogni altro tempo, ed è noi e ogni altro.
Nell’autoritratto c’è il dolore di quei vortici che esprimono confusione, tormento, incapacità di mettere a fuoco la realtà esterna, ormai assente nello sfondo, in una schizofrenia che ci allontana dalla realtà fisica. E quei vortici ci investono, continuano nei vestiti del pittore, nel viso serio, pacato ma doloroso, in quel movimento appena sotto l’occhio sinistro che pare disegnare una lacrima.
È proprio come dice il critico in Doctor Who, c’è il dolore ma c’è anche l’estasi, la collera ma la bellezza, di un uomo afflitto ma sempre lieto. E di fronte a tanta umanità, di fronte a tanta lieta afflizione noi come Amy e il Dottore sentiamo l’irrefrenabile impulso di viaggiare nel tempo, di tornare indietro, di prendere con noi van Gogh e mostrargli quanto ora sia amato e apprezzato. Di dirgli che il suo dolore è il nostro dolore, la sua felicità nello slancio di luce di un vaso di Girasoli è la nostra felicità. E che lo capiamo. Che lo capiamo più che mai.
Ce lo immaginiamo proprio come in Doctor Who al Museo d’Orsay, incapace di trattenere le lacrime, meritatamente consapevole di quanto non fosse solo e non sarà mai solo, di quanto amore abbiamo per lui e sempre avremo. Lui che è stato non solo un grande pittore ma anche uno dei più grandi uomini che abbia mai vissuto. Lui che nella sua vita, nella sua arte, nella sua umanità è riuscito a essere -sublime, inarrivabile paradosso- afflitto ma sempre lieto.
Per me van Gogh è il più grande pittore tra tutti. Di sicuro un grande pittore, il più famoso di tutti i tempi, il più amato. La sua padronanza del colore è magnifica. Trasformò il dolore, il peso della sua vita tormentata in un’estatica bellezza. Il dolore è facile da rappresentare, ma usare la collera, il colore per rappresentare l’estasi, la gioia e la grandezza del mondo… nessuno lo aveva mai fatto prima e forse nessuno lo rifarà mai. Ai miei occhi quello strano uomo selvaggio che vagava nei campi della Provenza non è stato solo il più grande artista del mondo, ma anche uno dei più grandi uomini che abbia mai vissuto.
– Dottor Black, 5×10 di Doctor Who