ATTENZIONE: l’articolo contiene spoiler sulla serie tv Sky Dostoevskij
Mettiamo subito in chiaro una cosa: parlare di questa serie tv non è affatto semplice. Dopo un lungo percorso, passato a Berlino e per le sale cinematografiche, Dostoevskij, la prima produzione televisiva dei Fratelli D’Innocenzo, sbarca nelle case di tutti gli spettatori su Sky e NOW. Con un rilascio in blocco, che permette di immergersi in questa storia curda e fosca. “Immergersi” è il termine adatto, perché Dostoevskij è un racconto che rapisce, che opprime e che sfianca. È un vero e proprio viaggio nei meandri dell’oscurità umana. Un cammino nei più intimi recessi dell’io, in quell’esistenzialismo tanto profondo da far terrore. E per questo motivo, parlare di Dostoevskij non è facile.
Non è facile perché la visione offerta dai Fratelli D’Innocenzo apre a un confronto spietato. Con se stessi, in primis, ma anche con il mondo che si ha intorno. Un mondo freddo e desolato, oscuro, tormentato, conflittuale. Un mondo però in cui trova spazio anche la poesia. In cui la scrittura ha un ruolo testamentario, quasi salvifico. Una dimensione in cui i rapporti sono costantemente conflittuali, specialmente quello assoluto col proprio io. Insomma, il mondo di Dostoevskij è un mondo complesso. Non facile. Eppure eccoci qui, a provare a mettere in ordine i fili di una serie tv che molti ameranno, che tanti altri forse non capiranno, ma di cui non si può ignorare assolutamente la portata.
Dostoevskij è una serie tv unica
Cominciamo da questo semplice assunto. Non lo diciamo in senso celebrativo, ma fattuale. Dostoevskij è una serie tv unica perché in giro non c’è nulla di simile. Sicuramente non in Italia. Siamo di fronte a un’opera lontanissima dalle convenzioni. Formalmente si presente come un noir (qui la classifica delle migliori serie tv thriller di sempre secondo IMDb), ma l’intera narrazione viene immediatamente condotta su un piano fortemente esistenziale. A indirizzare il racconto è il netto taglio autoriale imposto dai Fratelli D’Innocenzo, che riversano in Dostoevskij molti degli elementi a loro cari (a tal proposito, qui potete recuperare la recensione del loro ultimo film, America Latina). Dall’analisi dei rapporti genitoriali alla periferia (che qui si fa provincia) fatta di luoghi degradati e in rovina, passando per quella minuziosa esperienza delle più basse meschinità umane. Questi elementi s’innestano dunque sul noir e lo caratterizzano in maniera, appunto, unica.
Da tradizione che si rispetti relativamente al genere scelto, al centro di Dostoevskij c’è una caccia al killer. Unica anch’essa. La meccanica tipica di questo genere di racconti, infatti, assume sin da subito un’impostazione differente. Si biforca, per così dire, seguendo due direzioni principali, una “interiore” e l’altra “esteriore”. Su questi binari scorre il racconto, fino alla sua intensa conclusione, e su questi binari si posizionano anche gli snodi più interessanti su cui i Fratelli D’Innocenzo hanno innescato le loro riflessioni.
Il cammino di Enzo Vitello
Partiamo dalla traccia “interiore” disegnata da Dostoevskij. Alle calcagna del killer c’è Enzo Vitello. Un personaggio abbondantemente ripugnante, ma capace di mettersi completamente a nudo davanti allo spettatore. Il poliziotto (che durante il racconto diventa ex poliziotto a dire il vero) nel cacciare Dostoevskij finisce per dare la caccia a se stesso. La sua è una vera e propria catabasi, che lo porta a dover fronteggiare i suoi peccati più oscuri e ad affrontare i conflitti della sua esistenza. Il comune denominatore in questo caso è sua figlia Ambra.
Dostoevskij non è una serie facile, dicevamo. E la riprova l’abbiamo nella scioccante rivelazione della quarta puntata. Il plot twist sconvolgente che svela l’oscuro passato di Enzo. Non intendo, personalmente, andare a fondo sulla questione, sarebbe davvero impossibile analizzarla. Tuttavia, tutta quella sequenza che parte dalla rivelazione, prosegue con lo scontro fisico e culmina nell’autolesionismo di padre e figlia è uno dei momenti di maggiore impatto di tutta la serie tv. È il punto di non ritorno del cammino di Enzo. È l’immersione nell’acqua dello Stige, da cui il poliziotto riemerge cambiato per sempre. Deciso ad arrivare sino in fondo al suo viaggio negli Inferi. È il punto di non ritorno anche per lo spettatore, la cui esperienza con la serie tv rimane, indelebilmente, segnata da quel passaggio.
Il rapporto tra Enzo e Dostoevskij
La traccia “esteriore” che caratterizza Dostoevskij è data proprio dalla stessa caccia al killer. O meglio, dal rapporto che s’instaura tra Dostoevskij ed Enzo. La gestione dei ritmi narrativi è quanto mai compassata, specchio di quello spirito esistenzialista che anima il racconto. Può piacere o non piacere, ogni giudizio è legittimo in questo caso. Però, bisogna assolutamente riconoscere la genialità dell’escamotage partorito dai due fratelli registi e sceneggiatori per caratterizzare Dostoevskij. Parliamo, ovviamente, del ricorso alle lettere.
Grazie a questo aspetto, la caccia al killer si trasforma in un rapporto epistolare. S’instaura un confronto diretto, che si concretizza nelle lettere che Dostoevskij lascia accanto alle sue vittime. Queste sono l’elemento che più di tutti esalta la scrittura profonda dei Fratelli D’Innocenzo. Sono la valvola di sfogo di quel tono esistenziale a cui la serie tv di Sky ambisce. Ma l’aspetto ancora più suggestivo della meccanica delle lettere è la loro funzione in correlazione proprio all’omicidio. Gli scritti cristallizzano la vita proprio nel momento della morte. Mettendo su carta contorte riflessioni sugli ultimi istanti di vita delle vittime, Dostoevskij consegna le sue stesse vittime all’eternità della scrittura.
Non possiamo ignorare il legame che esiste tra la morte e la scrittura. Due dimensioni dell’assoluto. Due porte d’accesso all’eternità. Dostoevskij consacra questo legame tramite le sue lettere e questa meccanica riflette alla perfezione quell’anelito all’assoluto che alimenta la narrazione della serie tv dei Fratelli D’Innocenzo. Per chi ama perdersi in discorsi sul tempo e sull’aspirazione all’eternità, come il sottoscritto, un lavoro del genere è semplicemente una goduria.
Il dramma della solitudine
“Si muore quando si viene lasciati soli” diceva Giovanni Falcone, teorizzando l’impegno delle istituzioni nella lotta contro la mafia. Prendiamo in prestito questa massima per applicarla a un mondo dove, di fatto, le istituzioni quasi non esistono. Quasi non c’è una struttura civile. I protagonisti di Dostoevskij, Enzo in primis, si muovono ai margini della società. Agiscono in quelle zone d’ombra della coscienza e della moralità, in un universo decadente e irrimediabilmente sconfitti. Tutti, in Dostoevskij, sono soli. E non potrebbe essere altrimenti considerando il freddo universo in cui sono costretti a vivere. Si muore, sicuramente, quando si è lasciati soli. Dalle istituzioni, certo. Dagli affetti, sicuramente. Ma pure da se stessi.
In Dostoevskij la solitudine è universale. Che più universale non si può. Non solo ogni protagonista è irrimediabilmente solo, ma è anche in costante conflitto. Con gli altri, ma, come dicevamo, prima di tutto con se stesso. Ogni rapporto umano è tormentato da un conflitto irrisolto e questa massa di battaglie esteriori e interiori sono lo specchio di un mondo contraddittorio in cui il male ha ormai vinto e può dilagare. In cui il male si può fermare solo e soltanto con la morte.
La cornice estetica di Dostoevskij
Prendiamoci un momento per parlare dell’estetica di Dostoevskij. Il racconto si costruisce attorno a un triangolo ai cui vertici troviamo la crudezza, l’oscurità e l’evocazione. Tra questi poli si costruisce il racconto. L’atmosfera è costantemente fosca. A livello visivo c’è molta oscurità nel racconto e abbondano i silenzi, spezzati il più delle volte da rumori cacofonici. Non mancano le scene forti, già nella prima puntata ne vediamo due esemplificative: il vomito di Enzo e la sua colonscopia. Ricordatevi del vomito, perché ci torneremo tra pochissimo.
Terminiamo prima la descrizione di questo triangolo che orienta l’estetica del racconto. Quasi suoni cacofonici fanno spesso il paio con ambienti scialbi, degradati e rovinati. L’immagine è quasi scarnificata, ridotta all’osso. Poi a intervalli si riempie, con alcuni passaggi evocativi che conferiscono al racconto quel tono esistenziale di cui stiamo parlando sin dall’inizio. Come potete vedere, non è facile sopportare sensazioni del genere. Calarsi per sei episodi nell’oscurità, nella crudezza e nella visione. Bisogna predisporsi adeguatamente e lasciarsi trasportare per percepire addosso, e comprendere con nitidezza, il contesto disegnato dai Fratelli D’Innocenzo.
Torniamo, ora, al vomito. Da questo triangolo esce fuori un senso di repulsione che Dostoevskij cerca orgogliosamente di provocare. C’è tanto disordine. Molta sporcizia. Tanto, tantissimo fastidio nei confronti dei personaggi. Il tutto contribuisce a creare un senso di disagio, una repulsione che viene esemplificata, appunto, dal vomito. Vomitare è, in fin dei conti, la repulsione fisica. È l’atto volto a espellere dal corpo qualcosa di nocivo. Non trovate anche voi che sia una metafora azzeccata? Tutta l’oscurità, tutto il male e tutte le ambiguità che Dostoevskij racconta innescano un bisogno di espulsione nello spettatore. Un “vomito emotivo” per così dire, la cui esperienza è destinata a rimanere ben impressa.
Un’esperienza unica
Riavvolgiamo il nastro. In virtù di tutto ciò che ci siamo detti sinora, possiamo affermare che Dostoevskij è sicuramente un’esperienza unica. Ricorriamo ancora una volta a questo termine, perché è davvero il più calzante che possiamo trovare per la prima serie tv dei Fratelli D’Innocenzo (di cui potete recuperare qui i pensieri espressi nella presentazione in anteprima della serie tv). È facile immaginare che il giudizio del pubblico sarà ambivalente nei confronti della serie tv di Sky. Che il sentimento sarà irrimediabilmente misto.
È anche comprensibile che si vada a creare uno scenario del genere. L’opera stessa contribuisce a definirlo. Però, al di là di ogni giudizio di merito, va detto che Dostoevskij è un’esperienza rara. Profonda, tormentata, esistenziale. Oscura, repellente, disagevole. Tante cose. Soprattutto, però, unica.