ATTENZIONE. l’articolo contiene spoiler sugli otto episodi di Everybody Loves Diamonds, la serie disponibile su Amazon Prime Video.
Con il ritorno in auge del genere heist – in realtà, mai andato in disuso – e sulla scia del successo de La Casa de Papel, che ha dato alle storie di ladri un seguito sorprendente, anche l’Italia meritava il suo tentativo. E se i prodotti di spicco erano finiti finora nel catalogo Netflix – su tutti, Lupin e la già citata La Casa di Carta, ma anche Caleidoscopio e l’argentina La rapina del secolo -, stavolta è Amazon Prime Video a ospitare la serie tv di riferimento per la televisione italiana. Everybody Loves Diamonds – che, a dispetto del titolo, è italianissima – ha avuto una genesi particolarmente lunga. Era stata annunciata agli abbonati Prime nel 2020, poi presentata nel 2021, rimandata al 2022 e finalmente approdata sulla piattaforma a ottobre 2023. In questi giorni, è balzata ai primi posti nella classifica dei titoli più visti di Amazon Prime Video, anche se l’effetto sorpresa si era ormai dissipato. È una serie in otto episodi, ambientata ad Anversa, nel cuore dell’Europa, e con un cast internazionale, tra cui spiccano i nomi di Rupert Everett, Malcolm McDowell e Synnøve Macody Lund (Ragnarok), accanto a quelli degli italiani Kim Rossi Stuart, Gianmarco Tognazzi, Anna Foglietta, Carlotta Antonelli (Suburra) e Leonardo Lidi (Noi).
Al centro della trama, neanche a dirlo, c’è una rapina. E, come capita sempre in questi casi, non una rapina qualunque, ma il colpo del secolo, una di quelle operazioni di ingegno criminale che destano invidia anche in quelli che si collocano dall’altro lato della barricata. Ad essere svaligiato è il World Diamond Center di Anversa, la città più importante del mondo per il commercio di diamanti. Everybody Loves Diamonds prende spunto da una storia vera. Nel 2003, le pagine di cronaca furono occupate dalla notizia di uno dei più eclatanti furti di diamanti della storia: a mettere a segno il colpo fu un italiano, Leonardo Notarbartolo, che guidò la sua banda di ladri altamente specializzati all’interno dei caveau del Diamond Center, aggirando i complessi sistemi di sicurezza che custodivano le pietre preziose. La vicenda – naturalmente romanzata – è stata ripresa da Michele Astori, Stefano Bises, Giulio Carrieri e Bernardo Pellegrini, che hanno scritto la sceneggiatura e fornito a Gianluca Maria Tavarelli il materiale per girare la prima serie heist made in Italy. Sulle note di Prisencolinensinainciusol di Adriano Celentano prende il via l’avventura di Kim Rossi Stuart nei panni del famigerato Notarbartolo, un criminale – almeno nelle intenzioni – a metà tra il ladro gentiluomo di Omar Sy in Lupin e l’idealista romantico del Professore di Alvaro Morte ne La Casa de Papel.
La narrazione segue un ritmo abbastanza sostenuto, alternando la fase di preparazione del colpo a quella immediatamente successiva, con tanto di didascalie a presentarci i personaggi principali – Alberto “l’hacker”, Ghigo “l’allarmista”, Leonardo “la mente”, Sandra “la regina delle serrature” e così via -. Già dalle prime battute si intuisce che Notarbartolo è un personaggio ansioso di dimostrare le proprie abilità criminali al mondo, con una punta di narcisistica soddisfazione. È il tipico ladro che non ruba solo per rimpolpare le proprie tasche. A smuoverlo è, al contrario, un’inappagabile fame di rivalsa sociale, ma anche l’inguaribile propensione a fare della truffa un’opera artistica. Leonardo si considera un genio criminale, un mago del furto, sulla scia di tanti altri ladri “romantici” che popolano le pellicole heist, da Ocean’s Eleven a Now You See Me. I suoi compagni vorrebbero scegliersi dei nomi in codice, come i personaggi de Le Iene, a sottolineare una certa continuità con un filone specifico di prodotti su truffe e rapine. La banda di Leonardo riesce a svaligiare il Diamond Center e a compiere un’impresa mai tentata prima nella storia. Come è potuto succedere, si chiede l’ispettore Mertens (Johan Heldenbergh). E cerchiamo di capirlo anche noi, seguendo il flusso del racconto che si dipana lungo gli otto episodi che compongono la serie.
Everybody Loves Diamonds vorrebbe essere un prodotto divertente e scorrevole, con una punta di ironia tutta italiana ad accompagnarne il ritmo sostenuto.
La scena della preghiera a San Nicola di Bari potrebbe sintetizzare il tentativo – forse un tantino maldestro – di dare al genere heist un’impronta più specificamente italiana. Di divertente, però, la serie di Amazon Prime Video, non ha molto. Le battute sembrano un po’ forzate, hanno poco di sarcastico e non riescono a farci entrare in empatia con i personaggi. La rottura della quarta parete – con le spiegazioni dettagliate sulla produzione dei diamanti o i frequenti sguardi in camera dei protagonisti, che si rivolgono direttamente allo spettatore, come fossero a teatro – stona un po’ con il tono del prodotto, gli toglie credibilità e spezza il ritmo del racconto senza fornire elementi utili allo spettatore per proseguire nella visione. I sogni si pagano, dice Leonardo Notarbartolo in una delle prime puntate. Se provi ad alzare la testa, a qualcuno verrà voglia di tagliartela. Bisogna stare buoni al proprio posto, il posto che ti ha assegnato il destino. E così, mestamente, aspettare che arrivi il giorno in cui la tua luce si spegnerà, accontentandoti delle briciole che ti capitano davanti. Ma Leo non è disposto ad accontentarsi, lui sogna in grande. C’è molto teatralità – forse pure troppa – nella costruzione del personaggio di Kim Rossi Stuart, ma la sua visione ideologica del mondo non riesce ad emergere come per altri personaggi. Tutto, in Everybody Loves Diamonds, sembra confinato in un contenitore ermetico, con poca presa sul pubblico. Non si percepisce il brivido dell’alta tensione, le idee che animano i propositi del protagonista risultano un po’ annacquate dal racconto, i plot twist non incidono.
La serie italiana sul furto di diamanti più importante della storia non presenta grossi elementi di novità rispetto a tanti altri prodotti del genere.
A parte il colpo di scena alla fine del primo episodio, tutto il resto non ha nulla di particolarmente sorprendente. Tra i personaggi non c’è vera alchimia – e si percepisce -. I dialoghi non mordono. Sembrano più scambi teatrali che conversazioni vere e proprie e l’accento di alcuni degli interpreti non aiuta a rendere più snella e naturale l’interazione tra i personaggi. Che, forse, mancano del giusto carisma per poter accattivarsi le simpatie del pubblico. I grandi nomi ci sono e non hanno nulla da invidiare alle produzioni internazionali: Rupert Everett è un avvocato che opera al confine tra mondo legale e sottobosco criminale, Malcolm McDowell è una presenza rara ma pesante, Synnøve Macody Lund è la direttrice del Diamond Center che cade nella rete affabulatoria di Notarbartolo, Johan Heldenbergh l’ispettore detestabile che si mette sulle tracce dei furfanti con un accanimento quasi personale. Ma nessuno di loro riesce ad andare oltre i tratti macchiettistici del personaggio di riferimento. Neanche il protagonista sembra saper assumere su di sé le redini della storia. In Everybody Loves Diamonds si percepisce l’assenza di un personaggio veramente carismatico, che sappia suscitare qualcosa nel pubblico. Kim Rossi Stuart non ci regala qui una delle sue migliori performance: il suo personaggio è esagerato, eccessivamente teatrale, poco credibile. Anna Foglietta, la moglie torinese di Leonardo Notarbartolo, sembrava poterci offrire qualche suggestione in più, ma anche l’arco narrativo del suo personaggio alla fine si rivela poco incisivo e abbastanza prevedibile.
Everybody Loves Diamonds ci spiega che, per creare un diamante vero, ci vogliono circa 800 milioni di anni e tre o quattro tonnellate di terra e roccia, mentre per farne uno sintetico bastano un semino di diamante, un po’ di idrogeno, un po’ di metano e appena una settimana di lavoro. Il risultato è un prodotto che vale il 60% in meno di quello naturale. A occhio nudo la discrepanza sembra minima, in realtà ci passa tutta la differenza del mondo. Ecco, Everybody Loves Diamonds aveva gli elementi per poter fabbricare una pietra preziosa vera, ma si è accontentato di averne una sintetica. Il risultato è che il prodotto finale non brilla come un diamante.