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Everything Everywhere All at Once: il significato nascosto del film

Everything Everywhere All at Once
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Everything Everywhere All at Once è un film che si sviluppa su diversi livelli di lettura, su strati che si alternano, intrecciano e sovrappongono nello stesso tempo. La forza dell’opera e il perché di così tanti riconoscimenti agli Oscar sta in fondo proprio nella capacità di unire più piani in una sinfonia unitaria: il virtuosismo stilistico e registico va di pari passo con quello scenografico ma acquista valore anche e soprattutto alla luce del significato dell’opera che partendo da una ben congeniata trama fantascientifica si sposta lentamente ma fermamente su una strutturata e minuziosamente meditata lettura esistenziale e psicologica. Proprio di quest’ultimo punto si proverà a dare un’interpretazione originale analizzando il senso nascosto del film.

Per farlo, occorre partire dall’inizio di Everything Everywhere All at Once.

Evelyn è una donna di mezza età, oberata da un lavoro mediocre, da debiti incombenti, da una figlia poco propositiva e un marito eccessivamente accondiscendente (e che ciononostante ha intenzione di lasciarla). Appare chiaro fin da subito come la donna, provando a ignorare ripetutamente tutti i segnali, tenti di rifugiarsi in una realtà di comodo, in un mondo tutto suo in cui la soluzione è sempre e immancabilmente quella di minimizzare. Minimizzare i problemi finanziari, familiari ed esistenziali.

Everything Everywhere All at Once
Everything Everywhere All at Once (640×360)

Quando l’azione prende il via siamo al momento di massima crisi (negata): è incombente l’incontro con l’ispettrice dell’IRS, il marito le ha consegnato la pratica di divorzio, la figlia pretende un’accettazione più profonda e reale della sua omosessualità e il padre ipercritico sta per arrivare in casa sua. Tutto l’universo, insomma, è pronto a collassare su se stesso. Questo universo, però, è evidentemente e prima di tutto un suo universo mentale e interiore. Alla luce di questa prima presa d’atto va interpretato il susseguirsi dei rocamboleschi eventi del proseguo del film.

Evelyn di colpo si scopre importante, decisiva per le sorti dell’intero universo: tutto ciò che esiste, è esistito ed esisterà dipende da lei. Una messia, un’eroina, una matrixiana Prescelta: questo è Evelyn, o almeno questo è convinta di essere. Già, perché, al progressivo farsi largo dell’elemento fantascientifico contestualmente aumenta anche il suo disagio psicologico. Non è un caso che appaia tanto mediocre prima, quanto supereroistica poi. Quel foglio da compilare per rendere effettivo il divorzio, per sancire il fallimento del suo matrimonio, diventa di colpo un misterioso codice da seguire alla lettera per cambiare i destini dell’universo. E lei, vittima di rimpianti e di decisioni di cui non è più sicura, d’improvviso entra in possesso di un sistema favolistico per viaggiare nei nodi del tempo e dello spazio e cambiare la direzione della sua vita.

Quella che vediamo qui delineato, in termini puramente psicologici, non è altro che un delirio schizofrenico.

Caratteri della schizofrenia sono l’assurdità e la bizzarria degli eventi di cui ci si sente protagonisti, una lucida paranoia e allucinazioni sensoriali che nessun altro percepisce (il marito, la figlia, nessuno delle persone reali vive davvero quel mondo di stramberie). Evelyn è vittima della sua mente. In questo mondo di irrealtà ci si è voluta nascondere a forza, atto estremo per fuggire da una realtà che la stava per divorare, per far sprofondare in una depressione assoluta.

Evelyn
Evelyn e Deirdre (640×360)

Il mondo capovolto in cui si trova proiettata è esattamente l’opposto del mondo reale: tutto quello che non riesce a interpretare e affrontare trova senso. La sua diventa una psicosi simile a quella di Don Chisciotte che incapace di scendere a patti con la realtà si slancia in una lotta mentale tutta sua che ha nemici chiari e ben riconoscibili (i mulini a vento scambiati per giganti o le pecore per soldati). I nemici per Evelyn diventano così l’ispettrice dell’IRS e, sorprendentemente, sua figlia. In realtà non è realmente Joy il problema ma il male che si è impossessato di lei. La donna proietta così la sua paura più profonda, quella di non riuscire più a comunicare con la sua bambina, in una spiegazione facile: Joy è stata danneggiata.

Ecco però che subentra un elemento decisivo, qualcosa che differenzia lo stato psicotico di Evelyn da qualsiasi altro. La colpa di tutto non è esterna: la protagonista di Everything Everywhere All at Once non cerca un capro espiatorio esterno ma fin dall’inizio (o quasi) è chiaro che la causa della trasformazione di Joy nel villain Jobu Tupaki è causato da Alpha Evelyn. Cioè da (una parte di) lei. Paradossalmente quindi quel mondo strampalato e grottesco non diventa un semplice rifugio per evitare la verità ma un sistema con cui Evelyn si mette alla prova in una confort zone, la sua mente, per guarirsi, per automedicarsi.

Un paziente, vittima di un forte delirio paranoide, a volte può uscirne solo portando a compimento la missione di cui si sente protagonista.

Così accade, per esempio, a un magnifico Robin Williams nel film La leggenda del re pescatore. E così fa Evelyn che in un succedersi di tappe decisive arriva progressivamente alla verità conclusiva, a quella realtà che la mette di nuovo, finalmente, in contatto con la vita. Capisce che non con la violenza può essere salvato il mondo, il suo mondo, ma con la comprensione e la gentilezza. Con quei modi che tanto aveva disprezzato nel marito.

Jobu Tupaki
Jobu Tupaki (640×360)

La sua salvezza diventa così la salvezza della figlia, vittima più di lei della crisi della modernità, prodotto di una generazione ormai disillusa e consapevole del male che c’è nel mondo. Una generazione nichilista e rassegnata, apatica e morente che saltando nel tempo e nello spazio grazie alla scienza e alla storia, alla letteratura occidentale e alla crisi valoriale si trasforma in un mostro che come un buco nero tutto fagocita senza sosta e che aspira semplicemente alla fine di ogni cosa, alla fine stessa di tanto dolore.

Joy, nome che antifrasticamente (“Gioia”) chiarisce il senso del personaggio, è un’estensione di Evelyn, è sua figlia, un suo prodotto, e rispecchia, accentuandoli, quei dolori di cui la donna è vittima. Il male oscuro divora entrambe, la depressione e l’insensatezza dell’universo sembrano avvolgerle, irrimediabilmente condannarle ma nello stesso tempo provvidenzialmente riavvicinarle. Evelyn decide di non fuggire dal dolore, decide di guardare faccia a faccia quel male-bagel che rischia di divorare lei e la figlia. Così facendo, la donna salva entrambe.

Affronta la malattia e lo fa non con la violenza ma con la forza dell’affetto che converte tutti, che rende buoni anche chi ci eravamo figurati malvagi, come l’ispettrice Deirdre.

In ogni universo che immagina, in ogni proiezione di se stessa che si dà, fantasticando di essere un’attrice famosa o una star del kung fu, capisce che c’è una costante. Quello che conta non è il rimpianto per le scelte sbagliate che si sono fatte: Evelyn sa che se cedesse alla tentazione di legarsi a uno dei quei mondi (come pure desidererebbe fare) non tornerebbe più indietro. Sarebbe cioè per sempre prigioniera delle sue fantasticherie. Ma la protagonista di Everything Everywhere All at Once non cede, ha la forza di tornare indietro, di tornare in sé e capisce che quello che conta, la costante immancabile che salva, è l’amore: gli affetti salvano davvero, permettono di superare le difficili mediocrità della vita di tutti i giorni, dei panni da lavare e delle tasse da pagare.

Everything Everywhere All at Once
Waymond (640×360)

Evelyn torna in sé e recupera la figlia. Le fa capire che il suo è un appoggio totale, un’accettazione profonda e non solo di facciata come fino ad allora. Tutto questo non può naturalmente risolvere ogni problema, non può fornire una soluzione definitiva alla ricerca del senso della vita e alla nostra difficoltà di stare al mondo. Ma permette di tornarci al nostro, di mondo. Evelyn e Joy tornano alla realtà, alle difficili ma concrete vite che meritano di essere vissute nell’avventura che ci proietta nella ricerca di uno scopo per la nostra esistenza.

Joy seguirà la sua strada, pronta a intraprendere il suo personale viaggio mentre Joy, nella consapevolezza dell’esito di tutte quelle vite che non ha vissuto ma avrebbe potuto vivere, acquista rinnovata speranza. Nella sua mente ha fatto esperienza di tutte quelle possibilità, si è data una risposta che l’ha riportata alla vita e ora, arricchita dall’insieme di tutti quegli universi paralleli della sua mente, può andare avanti. Affrontare finalmente una vita in cui occuparsi di lavatrici e pagare le tasse con amore e gentilezza, al fianco del suo Waymond. Lei che ha sperimentato Everything Everywhere All at Once. Tutto, dovunque, in una volta sola. Nella sua mente.