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Tra Euphoria e Sex Education, qualcosa di nuovo: Everything Now, il nuovo teen drama di Netflix

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ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste incappare in spoiler su Everything Now.

Occorre fare una doverosa premessa: Everything Now parla del DCA, il disturbo del comportamento alimentare e delle gravi conseguenze che può portare questa malattia, invalidante e potenzialmente mortale, che compromette la saluta fisica e il funzionamento sociale dell’individuo.
Al termine di ogni puntata, infatti, viene avvisato lo spettatore che se ha problemi con l’alimentazione o conosce qualcuno che ne abbia può rivolgersi a un sito internet specializzato della sanità pubblica inglese dove esperti medici e psicologi possono aiutarlo.
Introdotto l’argomento, incredibilmente serio e doloroso, possiamo parlare della nuova miniserie distribuita da Netflix uscita lo scorso 5 ottobre. Una miniserie creata da Ripley Parker, appena ventitreenne e all’esordio come sceneggiatrice, figlia del regista Ol Parker e dell’attrice Thandiwe Newton (Crash, Westworld e La ricerca della felicità).
Ripley Parker è stata affiancata dai quasi esordienti Dylan Brady (alla sua prima sceneggiatura ma già visto come attore in The Diplomat e Coronation Street) e Glenn Waldron (già sceneggiatore di Fracture) e dalla più esperta Roanne Bardsley, già creatrice di Screw e Hollyoaks.
Dietro alla macchina da presa si sono alternarti Charlie Manton, già regista del pluripremiato corto 1st November, e Alyssa McClelland, già conosciuta per One Step Closer to Home e Sex Education, i quali si sono avvalsi della fotografia di Mark Nutkins e Marvin V. Rush, candidato a due premi Emmy per Star Trek: Voyager e Star Trek: The Next Generation.

Tutto adesso, la traduzione del titolo della miniserie composta da otto puntate della durata di una quarantina di minuti l’una. Un titolo significativo considerata la forza, positiva o negativa lo deciderà il pubblico, emanata dal gruppo di protagonisti. Al tempo stesso, un titolo azzardato per una teen drama che non può non essere immediatamente paragonata ad altre del calibro di Sex Education (scuderia Netflix), appena conclusa con la quale condivide la britannica origine, ed Euphoria (scuderia HBO).
Perché Everything Now nasce già con l’obbligo di sostenere, in maniera intrinseca, questi paragoni dovendo soddisfare il nuovo cap level fissato dalle concorrenti, e al tempo stesso essere in grado di superarlo creando nuovi requisiti nel mondo degli show per adolescenti.
Ci è riuscita? Scopriamolo insieme.

Everything Now
Sophie Wilde, 640×360

Ambientata nel nord di Londra, la miniserie è incentrata su Mia, interpretata da Sophie Wilde (Talk to me e Tom Jones), sedicenne affetta da un disturbo alimentare che l’ha portata a essere ricoverata in una clinica specializzata. All’inizio della seria la vediamo seduta di fronte allo psichiatra che la segue. L’immagine è fissa sul volto della ragazza la quale sa già quali domande le verranno fatte e quali risposte dovrà dare per soddisfare il dottore che ha di fronte. La voce fuori campo permette allo spettatore di leggere i pensieri di Mia partecipando a quel tipico processo creativo attraverso il quale tutti gli adolescenti mentono per non avere problemi con gli adulti. O, nel caso della ragazza, per poter uscire dalla clinica non potendone più di essere rinchiusa.
Mia tornerà a casa e poi a scuola. Gli adulti della sua famiglia, così come i professori a scuola, la tratteranno con i guanti preoccupati che continui nel suo recupero. I compagni di scuola come una che ha chiaramente dei problemi mentali e per questo è finita in clinica. Gli amici, invece, cercheranno di farla sentire al suo posto con la tipica esuberanza genuina di chi vuol fare del bene ma spesso finisce col fare del male.
Mia sarà perciò costretta a salire sulla giostra che nel frattempo ha continuato a girare. Lontana dalle mura protettive dell’ospedale dove ha passato gli ultimi sei mesi cercando di sopravvivere e di riprendere in mano la sua vita, ritroverà un mondo che nel frattempo è andato avanti, si è evoluto e, in un certo senso, si è dimenticato di lei costringendola a scoprire e creare nuove relazioni, del tutto destabilizzanti.

Everything Now è un gioco di equilibrio costantemente precario sotto il quale non esiste alcuna rete di protezione. Apparentemente ricchissima di cliché nasconde sotto una patina di allegra superficialità temi importanti che vanno ben oltre la malattia. Lo si comprende molto bene nell’ultima puntata quando finalmente qualcuno prende il coraggio a due mani dicendo a Mia che così comportandosi non riuscirà a sopravvivere al suo problema.
Mia, infatti, è convinta di poter riprendere la sua vita là dove l’aveva interrotta certa che i suoi amici del cuore siano lì, fermi con lei, ad aspettarla. Ma quando si accorge che così non è si sente indietro, abbandonata, con l’impressione di aver perso quelle tappe adolescenziali fondamentali che tutti agognano: primi appuntamenti, innamorarsi, reinventarsi, ubriacarsi, drogarsi, infrangere la legge, fare sesso eccetera.
Creerà così una lista di cose da fare, una sorta di decalogo dei desideri da realizzare insieme ai suoi amici più intimi: Becca (Lauryn Ajufo, nota per Boiling Point – Il disastro è servito), Will (Noah Thomas) e Cam (Harry Cadby), ai quali si aggiungono Alison (Niamh McCormack, nota per Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri) e Carli (Jessie Mae Alonzo, nota per Little Joe).
Lì per lì la lista può apparire sciocca, soprattutto considerato quanto scrittoci sopra. In realtà nel corso delle puntate si intuisce e poi si capisce che è una sorta di ancora della salvezza alla quale Mia si aggrappa per non venir inghiottita dal demone della sua malattia.

Everything Now
Sophie WIlde, 640×360

La miniserie britannica affronta in maniera molto delicata e rispettosa la questione del disturbo alimentare. Lascia le porte chiuse per i momenti più critici limitandosi a sfruttare l’immaginario dello spettatore. Anche i fattori scatenanti sono appena accennati perché poco importanti ai fini della narrazione. Gli autori hanno preferito puntare sul dopo mettendo a nudo il personaggio di Mia costretta ad affrontare la normalità quotidiana del mondo che la circonda al quale non riesce più ad appartenere.
Le simulazioni, le sue giustificazioni continue, quei pensieri intrusivi che soltanto lei e gli spettatori conoscono sono strumenti per poter sopravvivere ai continui tradimenti che la ragazza è convinta di patire da parte di tutti: dai genitori che divorziano agli amici che fanno sesso tra loro, dalle omesse verità alle bugie dette a fin di bene.

Sophie Wilde nei panni di Mia risulta davvero credibile. Dona al suo personaggio una multidimensionalità rara che va ben oltre gli stereotipi dell’adolescente problematico. Forte di una potente interpretazione, l’attrice regala a chi la guarda una duplice lente di osservazione. Da una parte una forte empatia, e non può essere diversamente. Dall’altra altrettanta antipatia. Gli stessi due sentimenti che provano i suoi tre amici più cari, Becca, Will e Cam. Diversi, invece, da quelli provati da Alison e Carli, più superficiali forse ma più immediati e impattanti.
La bravura di Sophie Wilde non potrebbe essere tale se non fosse coadiuvata proprio dal resto dell’ottimo cast. Giovani e adulti concorrono nel sostenere la protagonista grazie a forti background alle spalle. I personaggi a latere non sono privi di spessore e le interpretazioni sono davvero notevoli. In particolar modo è stupenda e commovente quella di Stephen Fry nei panni dello psichiatra, capace di stare al suo posto e fare la figura dell’incompetente fino al momento giusto quando accoglie Mia e la sue lacrime sincere, tra le sue braccia.

Everything Now
Stephen Fry, 640×360

Everything Now è ricca di sfumature, di sorprese. Come i pensieri di Mia che arrivano all’improvviso si arricchisce di sottotrame che sembrano fuori contesto ma non lo sono. Riesce a sorprendere ed essere davvero molto coinvolgente. Il viaggio che Mia intraprende dall’uscita della clinica, nei pochi mesi rappresentati sullo schermo, è soltanto agli inizi.

Non sapremo mai se la ragazza sopravviverà alla malattia. Ma gli autori ci fanno comprendere che il lieto fine non è poi così importante. Nel dialogo finale tra la ragazza e lo psichiatra, nel giardino della clinica di fronte a una meravigliosa fontana, il nocciolo della questione viene a galla chiarendo tutta una serie di non detti che avrebbero potuto affondare la serie. Non è così, per fortuna. Ogni tassello va a posto e quelli rimasti in sospeso sono lasciati alla fantasia dello spettatore che saprà sistemarli secondo il suo piacere.
Nella camminata sul filo sospeso si è preso finalmente un buon passo. Certo, la meta è ancora lontana e gli imprevisti dietro l’angolo ma l’equilibrio è stato ripristinato e non importa se nel frattempo qualcuno si è perso per strada, è stato abbandonato o è rimasto indietro. Perché Everything Now ha la bellezza e la capacità di consegnarci, senza retorica, la vita per quello che è: nel bene e nel male.