Ho sempre paura a utilizzare il termine capolavoro, porta il peso di troppe responsabilità. Un film può essere bellissimo, ma può non essere un capolavoro. Può essere qualcosa che – nonostante tutto – rimane comunque ai margini, qualcosa che, passata la botta finale, comincia a staccarsi dalla tua mente, qualcosa a cui non pensi più. Quell’ultimo capolavoro che hai visto, un po’ ti ha spaventato: e se non ne ritrovi più così? E se quella scintilla per cui utilizzi questo termine, non si riaccende più? Lo sai che è difficile, lo sai che non potrai farlo con facilità, che forse passerà parecchio tempo prima che riaccada. Però poi succede. Arriva il giorno in cui, semplicemente, non te ne frega niente. Vai al cinema, ti siedi, e succede. Più o meno è così che è andata: paghi il prezzo del biglietto senza aspettative, e alla fine esci dalla sala con il peso di doverla abbandonare. Fosse stato per te, poteva continuare ancora, senza smettere. Senza smettere mai. Il finale poteva essere posticipato ancora, e la sua fine annullata. Chi lo sa, poi, di cosa sia fatto un capolavoro. Ma di qualunque cosa sia fatto, a Freaks Out non interessa. Ed è lì che vince. Non vuole esserlo, vuole solo esistere e dire la sua. E lo fa, lo fa eccome. Lo fa tanto da farti dimenticare quella fastidiosa domanda che ti porta a chiederti se sia un capolavoro o no. Perché il tempo per le domande, Freaks Out, non lo lascia. Ed è meraviglioso così.
Tarantino aveva deciso di riscrivere la storia con Bastardi Senza Gloria; Gabriele Mainetti – invece – ha deciso di farla rivivere a modo suo, riuscendo ad arrivare lì dove non ti aspetteresti mai, lì dove la sua realtà fa le scarpe alla nostra fantasia, dimostrandosi più di tutto quello che avremmo mai potuto immaginare. Lì, in quel punto preciso, in cui quello che hai sempre pensato si riconferma: il cinema conta. Eccome, se conta.
Menomale che a Gabriele Mainetti non gliene è fregato nulla di essere preciso, di far risultare tutto coerente, reale. Ma chi se ne frega della realtà, alla fine. Di cosa sia vero, di cosa no. Di cosa sia surreale, e di cosa invece sia spaventosamente vero. A Mainetti è importato del vino, dei sentimenti, dell’umanità, e del resto chi se ne frega. In questi anni abbiamo fatto scorta di film sulla guerra, ne abbiamo visti più di quanto pensiamo. Gli orrori di quel passato riescono sempre a farci sentire disarmati di fronte a qualunque pellicola. Però poi arriva lui, e decide che le armi vadano prese eccome, e le dobbiamo tirare fuori. Se ne frega della coerenza del passato, del presente e del futuro. Unisce i tre flussi temporali in un unico passo a due facendo coincidere un Iphone, la seconda guerra mondiale, Creep dei Radiohead e un circo fatto di superpoteri, tra cui il più bello forse è solo uno: l’umanità.
Due ore e venti, e ho riso. Due ore e venti, e ho pianto. Due ore e venti, e mi sono stupita di tutta quella magia. Due ore e venti, e mi sono arrabbiata. Due ore e venti, e mi sono intenerita. Due ore e venti, e ho provato ribrezzo. Due ore e venti, e tutto questo. Allora è vero – ho pensato – dopo tutto questo, chi se ne frega cosa sia un capolavoro o cosa non lo sia.
Gabriele Mainetti non ha cambiato la storia, ma le ha concesso i superpoteri, il riscatto, la delicatezza. Perché, neanche per un attimo – nonostante i colpi di pistola, le braccia grondanti di sangue – questa pellicola ha perso quel tocco che da oggi la differenzierà da tutto quello che abbiamo già visto. La sua delicatezza, il suo modo di guardare dentro ai protagonisti, l’ha resa ciò che è, ciò che sarà sempre: un tocco di umanità, in mezzo a tutto quello che lentamente, invece, la stava totalmente perdendo.
Quello che abbiamo visto è stata una lezione di storia, ma anche – e soprattutto – una lezione sul nostro oggi, su quello che abbiamo fatto, su quello che siamo diventati, sul come – alla fine – quel frangente abbia cambiato totalmente le sorti del mondo in cui viviamo, e di come noi siamo cambiati con lui. Abbiamo visto lo sbarco sulla luna direttamente dal passato, abbiamo visto il nostro presente con gli occhi di chi voleva raderci al suolo, con gli occhi di chi cova il tormento della cattiveria, utilizzandola anche e soprattutto contro se stesso. Raccontare la storia non potrà mai cambiarla, ma cambierà – di certo – il modo in cui noi la viviamo, il modo con cui decidiamo di ricordare ciò che non abbiamo mai vissuto. Gabriele Mainetti ha raccontato così la tenerezza di chi ha lottato senza focalizzare l’attenzione sul chi ha perso e sul chi ha vinto. Perché alla fine – come dice Freaks Out – dalla guerra nessuno ne esce vincitore, se ne esce solo sconfitti. Non esiste gloria, non esiste vittoria. Esiste solo un corpo che non doveva smettere di respirare, e un corpo che ha mosso le sue gambe verso una strada totalmente sbagliata, una di quelle in cui i cartelli stradali non portano da nessuna parte.
L’umanità: è lei il tassello che non manca mai in Freaks Out. Lei di cui si parla sempre, ma che spesso non viene rispettata, qua viene trattata come l’unica cosa che conta, come l’unica cosa – che alla fine – merita un posto eterno in questo flusso infernale che le pagine di storia portano il fardello di raccontare. Perché a nessuno fa davvero piacere rivivere quello che è successo, eppure è necessario. Ed è proprio questa esigenza la protagonista indiscussa delle due ore e venti: è lei la risposta al perché ci ostiniamo a raccontare, a ricordare quello che vorremmo non fosse mai successo. Il cinema – spiega Mainetti tra le righe di Freaks Out – è un’esigenza. Non sarà lui a cambiare le sorti dell’orrido, ma sarà lui a far pronunciare quello che non è stato detto, sarà lui a unire la magia e la finzione. Cosa sia reale e cosa non lo sia, a noi non interessa. Non ci importa se nessuno abbia mai fulminato qualcuno per salvarsi, o se un uomo barbuto o un un ragazzo e una ragazza abbiano volato in cielo. A noi interessa dell’umanità, a noi interessa la didascalica realtà che Mainetti ci ha raccontato dimostrandoci che tutti abbiamo bisogno del cinema.
Finché il cinema se ne fregherà di quello che sia reale e di quello che in realtà non lo sia, finché il passato verrà riscritto e cambiato, finché ci saranno date più prospettive, finché un film non ci si staccherà di dosso, finché non ne avremo abbastanza. Finché l’arte imiterà la vita, finché saremo scossi, finché basteranno due ore e venti minuti per non fare morire una storia. Finché non sarà mai abbastanza, e avremo ancora bisogno di un ennesimo capolavoro per conoscerci e riscoprirci. Finché avremo voglia di scappare dalla realtà, e finché avremo voglia che questa diventi reale anche in uno schermo. Finché ci sarà tutto questo, allora sì: il cinema conterà. Eccome, se conterà.