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Ghosts of Beirut – Recensione della nuova miniserie distribuita da Paramount+

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ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste imbattervi in spoiler su Ghosts of Beirut.

Paramount+ ha reso disponibile per i suoi abbonati questo giovedì, 27 luglio 2023, la miniserie trasmessa da Showtime, rilasciata dal canale americano on demand tra maggio e giugno scorso.
Le quattro puntate, ciascuna della durata di un’ora circa, sono state create da Avi Issacharoff e Lior Raz, già autori dell’acclamatissima serie israeliana Fauda e della meno riuscita Hit & Run, entrambe con protagonista proprio Lior Raz. Per la stesura del copione il duo si è fatto aiutare da Joelle Touma, ex giornalista libanese e candidata all’Oscar per il miglior film straniero con L’insulto, nonché sceneggiatrice di un episodio di Le Bureau – Sotto copertura, l’incredibile serie di spionaggio francese creata da Canal+.
A completare la troupe ci sono Kolja Brandt alla fotografia e Fernando Velázquez per le musiche (Sette minuti dopo la mezzanotte e Quando Dio imparò a scrivere), mentre il tutto è diretto da Greg Barker, che il New York Times ha definito “regista di importanza artistica e politica notevoli“, già autore di Sergio (con il meraviglioso Wagner Moura) e vincitore di un Emmy per il documentario Manhunt: The Inside Story of the Hunt for Bin Laden.

Se vi piacciono le storie di spionaggio allora, forse, Ghosts of Beirut fa al caso vostro. Showtime è il canale che ha distribuito quel gran capolavoro che è Homeland e accoglie un prodotto scritto da due autori che con Fauda, distribuita quest’anno, da Netflix, la quarta stagione, hanno rivoluzionato il genere rendendolo sporco e polveroso, caotico, e non più patinato, alla James Bond per intenderci.
Ghosts of Beirut, però, è ben distante da entrambe sebbene provi a strizzar loro l’occhio, proponendosi come una sorta di sorella minore. Basata su una storia vera, con personaggi realmente esistiti, e scritta dopo profonde e attente ricerche, Ghosts of Beirut è una via di mezzo tra le due già citate serie con qualche pecca in più. Forse è la serie che fa per voi. Forse, appunto.
Ma andiamo con ordine.

ghosts of beirut
Amir Khoury è Imad Mughniyeh 640×360

Ghosts of Beirut ha un inizio adrenalinico, capace di stimolare anche il più avvezzo alle serie di spionaggio. Un inizio che fa ben sperare e che ci proietta in un passato recente, il 2008, come prologo per una storia che ha radici ben più profonde e lontane.
Poi compare la protagonista, Lena, interpretata da Dina Shihabi (già vista in Madam Secretary e John Ryan) che arriva sulla scena di un crimine con un piglio che ricorda tanto Carrie Mathison (e questo ce la fa piacere tanto, immediatamente). Lena, dopo aver sbirciato dentro un’auto abbandonata, ha uno scambio telefonico con qualche personaggio che ancora non conosciamo durante il quale ammette, senza dubbio alcuno, che il tutto è stato organizzato da Imad Mughniyeh. E qui comincia la Storia, quella con la esse maiuscola, che ci trasporta agli inizi degli anni Ottanta, a Beirut, capitale del Libano.
Ghosts of Beirut, infatti, racconta la storia di Imad Mughniyeh, nato nel 1962 in Libano e considerato, fino all’11 settembre 2001, come il terrorista più violento e pericoloso al mondo, esecutore di omicidi e rapimenti e mandante di attentati terroristici come l’attacco all’ambasciata americana, oltre sessanta morti, e quello alla caserma dei Marines, oltre trecento morti, entrambi nel 1983, a Beirut. O l’attentato all’ambasciata israeliana in pieno centro a Buenos Aires, costato la vita a trenta persone.
A dare la caccia a uno dei più importanti ufficiali del gruppo terroristico di Hezbollah troviamo l’FBI, che in questa serie gioca un ruolo minimo, se ne accenna appena, la CIA, rappresentata dalla già citata Lena, e il Mossad, rappresentato da Teddy (interpretato da Iddo Goldberg, già visto in Peaky Blinders, Salem e Snowpiercer). Sono proprio le due agenzie di spionaggio più conosciute al mondo, con i loro due rappresentanti, per altro personaggi fittizi, a farla da padrone nella narrazione e a guidarci nella più lunga caccia all’uomo di tutti i tempi.

ghosts of beirut
Dina Shihabi è Lena 640×360

Il titolo della serie è significativo. Oltre a citare uno dei soprannomi di Imad Mughniyeh, il Fantasma, evoca gli spettri che ciascuno dei protagonisti si porta dietro. Così, per il terrorista si tratta del cognato mandato a morire in Kuwait e del fratello ucciso da un’autobomba. Per Lena non sono solo i colleghi Robert Ames e William Francis Buckley (entrambi realmente esistiti) uccisi a Beirut negli anni Ottanta, quando lei era bambina, ma il suo passato di profuga libanese. Per Teddy sono, invece, i morti dell’ambasciata e tutti quelli dell’Olocausto che si proiettano sul compito primario del Mossad: proteggere Israele e punire chi ne vuole la cancellazione.
Fantasmi sono anche le migliaia di persone innocenti che il Medio Oriente, una terra meravigliosa e difficile, ha visto trasformarsi in vittime di una guerra che si protrae ormai da un tempo infinito e che non vede una conclusione se non attraverso l’uso della forza.
Quella forza brutale e violenta che deriva dal desiderio rabbioso di imporre il proprio credo, sia esso religioso o politico, a discapito della comunità e della fratellanza. Una delle scene più significative di tutta la serie è proprio il momento in cui i cosiddetti buoni fanno esplodere un’autobomba nel cortile di una scuola coranica. Un agente della CIA chiama Langley e parla con il direttore chiedendo che l’operazione venga abortita perché ritiene sia immorale comportarsi come i propri nemici. In cambio ne riceve una semplice risposta: non avresti dovuto chiamare. Ecco, negli occhi del giovane agente che sente il boato dell’autobomba da distante perché bloccato in mezzo al traffico c’è tutta la sostanza, l’essenza di Ghosts of Beirut. Fino a che punto è lecito spingersi? Fino a che punto vale la legge del taglione? Cosa siamo disposti a fare e a subire pur di restare umani, diversi da chi combattiamo?

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Iddo Goldberg è Teddy 640×360

Le quattro puntate di questa miniserie sono arricchite da immagini di repertorio: telegiornali d’epoca, discorsi di Reagan che danno al racconto una maggiore incisività. A questa documentazione storica si aggiungono anche interviste a giornalisti, analisti ed ex agenti della CIA e del Mossad, attualmente in pensione. Gente che ha scritto su Imad Mughniyeh, gente che ha cercato di fermarlo, in maniera lecita o illecita. I punti di vista di queste persone sono interessanti anche se chiaramente di parte e danno a tutta la miniserie un taglio documentaristico che ricorda un po’ Band of Brothers.
Gli attori sono sorprendentemente bravi perché sembrano reali, verosimili, e non risultano mai impostati. I due che interpretano Robert Ames e William Francis Buckley, poi, danno ai loro personaggi una profondità particolare, emozionante, sembra quasi che li interpretino con il dovuto rispetto perché caduti in battaglia, uccisi da un perfido nemico.

Nel complesso generale il taglio realistico del racconto è interessante e si allontana dalle solite spy stories. La storia viaggia spedita senza particolari cali di tensione. Nonostante vi siano pochi colpi di scena e rari momenti di azione non ci si annoia mai e si ha il giusto tempo per riflettere cercando di non schierarsi.
Al termine della visione, però, resta uno strano sapore in bocca perché qualcosa non torna. In tutta onestà non ci sentiamo di dare un voto alto a questa miniserie: una sufficienza piena sì, senz’altro, ma niente di più. Come se fosse stato svolto il compito assegnato dal docente senza però aver fatto lo sforzo di approfondire l’argomento. E dire che all’inizio di ogni puntata veniamo avvisati che sebbene si tratti di un’opera fittizia il tutto è frutto di accurati e profondi studi. Questa accuratezza, però, non sembra davvero esserci perché si ha l’impressione che manchino delle tessere del puzzle. Forse quattro puntate sono un po’ poche per condensare una storia che è durata oltre venticinque anni.
Così, mentre si investe molto sulla vita del terrorista, sulla sua famiglia e sulla sua storia d’amore con una commerciante, quasi a cercare di renderlo umano, si passa poco tempo a raccontare tutta la parte investigativa fornendo poche spiegazioni e nemmeno molto chiare sui metodi di raccolta delle informazioni e come si sia arrivati a trovare una persona considerata dagli stessi agenti del Mossad e della CIA come la migliore spia di sempre.
Anche tutta la parte ambientata negli anni Ottanta appare in un certo qual modo sprecata perché pur con la lodevole intenzione di cercare di dare chiarimenti e giustificazioni sul perché siano nate le milizie jihadiste (e qui parliamo di chi ha inventato i famigerati martiri che si immolavano per la causa islamica contro Satana e Israele) alla fine non ci riesce. Significativa è la scena in cui Imad Mughniyeh spiega al cognato perché debba andare in Kuwait: manca completamente il travaglio interiore del futuro martire che accetta quello che è il suo destino come fosse una gita fuori porta.

Insomma, Ghosts of Beirut forse è la serie che fa per voi: se non avete troppe aspettative, se vi piacciono le docu-serie, se avete del tempo da passare in questa torrida estate. E se pensate che prima di Osama bin Laden fosse (quasi) tutto rosa e fiori.
Ma se invece siete nati ben prima dell’11 settembre, come chi vi scrive, e avete memoria di quei gravi attentati, se sentir parlare del Libano vi rimanda a vecchie risoluzione dell’ONU e caschi blu italiani, allora forse non fa per voi. E non perché non sia fatta bene, ci mancherebbe. Semmai perché potrebbe risvegliare ricordi e domande sopite alle quali, da allora, ancora non siete riusciti a dare risposta.