Gli Spiriti dell’Isola ha ricevuto ben nove candidature agli Oscar e otto ai Golden Globe (quest’ultimo un vero e proprio record) riscontrando favori di critica e pubblico. Non è difficile capire il perché. Anzitutto la straordinaria prova attoriale dei suoi interpreti, non ultimo quel Barry Keoghan di cui vi abbiamo già raccontato la vera complicatissima storia. Ma anche dei due protagonisti, Colin Farrell e Brendan Gleeson, che ci hanno regalato duetti indimenticabili. C’è molto altro però, dietro al successo e al valore di un film che sembra nascondere, dietro l’apparente linearità, un significato tutt’altro che immediato e letterale.
Per capire meglio l’inaspettato senso degli Spiriti dell’Isola occorre anzitutto partire dal suo regista, Martin McDonagh, britannico ma di origini irlandesi, che ha davvero messo tanto di suo in questo film. Non un parvenue della regia se pensiamo anche solo al pluripremiato Tre Manifesti a Ebbing, Missouri che già ne aveva messo in luce le magnifiche doti narrative. In quest’ultima pellicola, però, più che nei precedenti lavori, McDonagh attinge tanto ai suoi ricordi, all’infanzia e alla terra di provenienza creando un’opera sospesa ed emblematica.
Gli Spiriti dell’Isola è un melting pot di cultura irlandese, memorie e tradizioni che riaffiorano da tempi dimenticati.
L’ambientazione circoscritta, su una piccola isola al largo delle coste d’Irlanda, permette di concentrare gli eventi, di esasperare e far assurgere a figura archetipale ogni personaggio. Lo “scemo del villaggio”, la “strega”, il sempliciotto, l’intellettuale, il borioso, rimandano tutti a una fusione di ricordi e a una sovrapposizione di più figure che nel limitato orizzonte dell’isola si condensano in pochi, iconici uomini.
Percepiamo fin da subito il senso di chiusura, l’angustia di uno spazio che diventa vera quinta teatrale in cui tutto si limita a un brullo, omogeneo e monotono spazio esterno di prateria e a due-tre ambienti interni: la taverna, la casa di Pádraic e quella di Colm. Più che davanti un film sembra davvero di trovarci a una pièce teatrale in cui ogni attenzione dello spettatore e del regista si concentra sugli esigui personaggi e l’ambiente diventa semplice sfondo che ne accentua e arricchisce i tratti.
Il film scorre semplice, essenziale, eppure nello stesso tempo ci appare criptico e sopra le righe. Perché Colm decide di rinunciare all’amicizia di Pádraic? Perché quest’ultimo non riesce ad accettare il rifiuto? Le domande che ci poniamo sono, però, sbagliate. E le risposte, semplici quanto assurde, arrivano piuttosto rapidamente nel film spostando rapidamente l’attenzione su altri elementi: Colm si è di colpo reso conto di stare perdendo il suo tempo in una quotidianità avvilente e in una vita destinata all’oblio mentre Pádraic, nella sua immaturità, non può accettare di perdere l’unico amico che ha.
Questo in soldoni. Come detto, però, resta tanto di insoluto, irrisolto e apparentemente inspiegabile in questa storia. Messo rapidamente da parte il mistero sul perché degli strani avvenimenti di Inisherin, il regista fa sì che la nostra attenzione si concentri sul ‘come‘. Ed è qui che la lettura si fa più interessante e il senso sembra emergere in tutta la sua profondità.
La reazione di Colm all’incapacità di accettare il rifiuto da parte di Pádraic è assurda, esagerata, controproducente.
Decide di tagliarsi una dopo l’altra le dita, infine di mozzare tutta la mano, privandosi così della possibilità di suonare quelle ballate a cui avrebbe voluto affidare la sopravvivenza del proprio ricordo. Di contro appare altrettanto sopra le righe l’odio crescente che matura in Pádraic che arriva ad atti eclatanti pur di vendicarsi dell’amico.
E di qui possiamo ricavare una prima lettura, la più elementare: il microcosmo ricreato da McDonagh non è altro che un concentrato di memorie che si intrecciano sfilacciate, che provano a trovare forza legandosi le une alle altre, fondendosi in un magma informe e non sempre coerente. Sono le memorie della sua terra d’origine (in cui ha ambientato tutte le sue opere teatrali), i racconti che i genitori gli facevano, le storie di spiriti femminili, luoghi asfissianti ma dai cieli sterminati e personaggi satireschi orribili e straordinari. McDonagh ritesse tutto insieme creando un nuovo mito, una nuova tradizione tutta sua, personale e alterata dalla fantasia: le leggendarie faide familiari tra irlandesi si affiancano così alla banshee del villaggio e a figure materne, su tutte Siobhán.
Siobhán è la figura più razionale e, per così dire, reale, dell’opera. In lei si condensa l’immagine di una madre incompresa, drammaticamente sola nelle sue emozioni e nel senso di claustrofobia che quella terra desolata genera in lei. Non è un caso che sarà la sola a uscirne, ad approdare al mondo vero, quello della terraferma, della città. È una donna frustrata nelle sue aspirazioni, in parte come Colm, con cui infatti riesce -unico- a entrare in connessione, ma senza la boria e arroganza di quest’ultimo, proteso in illusorie mire di grandezza.
Siobhán è ricordo materno, squarcio logico su un mondo favolistico, incongruente, dionisiaco.
Non è una teatrante come gli altri personaggi ma quasi l’occhio adulto del regista che si proietta sulla fantasia. Attorno a lei si agitano come menadi, ognuno rinchiuso (e ben felice di esserlo) nella propria parte gli attori. Non stereotipati, no, ma nudi e puri nelle proprie caratteristiche: Pádraic sempliciotto senza affanni, Dominic, lo scemo del villaggio, Colm, gaudente libertino. È quest’ultimo a sconvolgere la quiete, ad alterare lo stantio piattume di un luogo in cui neanche la guerra, se non in rimbombi lontani, sembra poter giungere.
Colm è la figura dionisiaca per eccellenza di Gli Spiriti dell’Isola, nel suo eccesso costante: eccesso nell’amare, nell’odiare, nel rispettare le minacce fatte. Vive di questo eccesso, si alimenta dell’invasamento folle, della vitalità che finalmente agita l’acqua palustre di Inisherin. Ed è per questo che nel suo risveglio irrazionale odia profondamente Pádraic che rappresenta quanto di più ottuso e ristagnante possa esserci. Nella sua mediocrità Pádraic non comprende né le sofferenze esistenziali della sorella né l’improvviso vitalismo di Colm che tronca i rapporti con lui.
Eppure, nel corso della storia, senza che riusciamo mai a parteggiare davvero per qualcuno dei due, anche Pádraic verrà investito della forza dionisiaca di Colm, anche lui alimenterà un odio totale, un sentimento assoluto e per questo rispettabile e degno di ammirazione da parte di Colm. Ed è su quest’ultimo elemento che si concentra la narrazione e può cogliersi il significato meno immediato di Gli Spiriti dell’Isola.
L’odio e la faida.
L’odio e la faida da un lato sono naturalmente, come gli altri elementi del racconto, parte di memorie e leggende, storie di guerre familiari di cui l’Irlanda è piena e le cui cause neanche i discendenti delle rispettive famiglie ricordano più. Dall’altro sono mezzo di fuga dall’opprimente solitudine, dall’asfissiante chiusura di un’isola separata dal mondo. Sono l’unico mezzo di sopravvivenza alla noia per chi non può lasciare l’isola, come invece farà Siobhán. Ed è per questo che Colm prova un perverso orgoglio nel constatare che il mediocre Pádraic si è elevato nell’odio divenendo così interessante e fornendo un valido rivale a Colm.
Ma odio e faida sono anche simbolo di altro. Non è un caso che più volte nel corso di Gli Spiriti dell’Isola tornino a risuonare, lontani ma evocativi, i boati della guerra. L’intero microcosmo di Inisherin su un piano diverso è sintesi dell’intera umanità nelle sue bassezze: nell’ottusità, nella mediocrità, nella vanagloria, nell’assurdità della guerra. Ecco dunque che, in una inaspettata chiave morale, la faida tra Pádraic e Colm diventa archetipo, alla stregua di Caino e Abele, della guerra, dell’essenza della guerra, di una lotta fratricida che procede da ragioni inconsistenti, spesso vanagloriose (come l’aspirazione di Colm all’eternità del ricordo) e si esacerba via via finendo per dimenticare le stesse motivazioni che l’hanno prodotta.
Una guerra in nome della quale si è disposti ad atti assurdi e sacrifici non richiesti (Colm che si taglia le dita) e che procede in un’escalation incontrollabile di distruzione.
Non è un caso che la storia sia ambientata nella primavera del 1923, in piena guerra civile irlandese, a rimarcare ulteriormente il valore simbolico ed esemplare della vicenda. In quest’ottica Siobhán rappresenterebbe allora lo sguardo materno di chi prova a mettere pace tra due fratelli ma anche quella razionalità che coglie l’assurdità della guerra e che abbandona la terra quando il conflitto diventa inevitabile. Mentre tutto attorno a morire sono gli incolpevoli e sciocchi come Dominic e la Morte sotto l’aspetto di uno spirito femminile fa la sua inquietante comparsa.
Gli Spiriti dell’Isola opera quindi su diversi livelli, mettendo in scena un’universalità che attinge a ricordi personali, tradizioni locali, leggende tramandate e figure esemplari. Al piano della memoria si sovrappone e confonde però anche quello di un microcosmo che diventa espressione dell’intera umanità. Di una realtà in cui l’uomo, troppo spesso, prova a sottrarsi alla sua mediocre insensatezza attraverso un’ideale che si fa odio e vendetta, guerra e ostilità, per il desiderio di consacrarsi alla storia. Una vanagloriosa, tronfia aspirazione alla notorietà. “Sai chi viene ricordato del XVII secolo per la sua gentilezza? Nessuno, assolutamente nessuno“.