La traccia che più rimane impressa nell’ultimo episodio della seconda stagione è “Secondigliano regna”. Un leitmotiv, più che un titolo. Uno slogan che riassume alla perfezione ciò che rappresenta, ideologicamente, il quartiere per i personaggi di Gomorra. L’epicentro della loro esistenza, un porto di mare al quale non si può fare a meno di attraccare.
Sullo sfondo quelle Vele che sono un punto di riferimento, atte a scongiurare il rischio che i figliol prodighi smarriscano la strada di casa. Ma che, al tempo stesso, esercitano una forza magnetica tale da attirarli a sè. Ovunque essi si trovino. Secondigliano regna, in altre parole, è una forma contratta di un concetto più ampio: non importa quanto lontano vi si rifugga, Napoli torna ciclicamente, ineluttabilmente, nelle loro vite.
È questo il tratto comune di due puntate totalmente diverse per struttura (introspettiva la terza e corale la quarta): la necessità di ripartire da zero e, dunque, da Secondigliano. Un destino che si fonde nei due protagonisti di Gomorra, sebbene per motivi differenti.
Per Ciro la necessità di fare tabula rasa è un dovere morale, un modo per espiare il senso di colpa per la morte della figlia. Prova a ripartire dalla Bulgaria, spogliandosi completamente delle ambizioni di potere che hanno contrassegnato gli eventi delle prime due stagioni. E che gli sono costati una moglie e una figlia. Ricomincia, pertanto, a prendere ordini.
La sua posizione, tutt’altro che di vertice, viene sottolineata a più riprese attraverso uno specifico dettaglio: ‘a capa, la testa, in riferimento all’acume, all’intelligenza e all’esperienza con i quali egli esegue un lavoro. Nella fattispecie è Mladen nel terzo episodio a richiamare la caratteristica in maniera dispregiativa (“tieni una bella testa tu“) e Enzo O’ Talebano nella quarta, attribuendogli un valore positivo (“‘na capa come la tua ci farebbe comodo“). Impossibile, date le circostanze, non ripensare alle parole di Genny nella prima stagione, nel dialogo che, di fatto, ha sancito la ribellione di Ciro (“iss ten ‘a capa p’a guerra“).
Sembra, pertanto, che sia insito nella natura di Ciro essere un bravo soldato, tanto quanto essere l’Immortale. D’altra parte, l’Alleanza della passata stagione, più che per suoi errori di valutazione, è venuta meno perchè gli altri capizona non lo riconoscevano quale loro leader. Eppure, anche in Bulgaria, egli è costretto a ribellarsi, percependo il richiamo di Napoli. Sarà , infatti, l’incontro con la banda dei Talebani a porre fine al suo esilio.
Ma è nello snodo che dalla Bulgaria porta fin dentro Secondigliano che Ciro regala il momento più toccante dell’episodio. Se, per bocca dello stesso Marco D’Amore, è chiaro che non potrà mai esserci riscatto per la perdita della figlia, è altrettanto vero che egli tenta di sublimare il senso di colpa nella figura della prostituta albanese che aiuta a scappare: non è un caso che i gesti e le parole (“fa’ a brava“) con cui si congeda da quest’ultima siano gli stessi che aveva rivolto alla figlia prima dell’agguato in cui è morta.
Se il primo episodio è magistrale nel delineare il background psicologico di Ciro (pur non mancando di introdurre adeguatamente la figura di Enzo O’ Talebano), il secondo si fa apprezzare per la qualità di una scrittura efficace nel sovvertire ogni sorta di schema.
La parte centrale della puntata riprende la trama dei primi due episodi, focalizzandosi sugli sviluppi della faida tra Genny e il suocero, Don Avitabile. Tuttavia, dato l’ampio spazio concesso ai nuovi personaggi e al ritorno in campo di Scianel (un ritorno promettentissimo dato lo spessore del personaggio), sembra che tutte le storyline andranno a convergere ben prima della fine, in quella che si prospetta come una guerra totale.
Il primo a farne le spese, manco a dirlo, è Gegè, reo di aver cambiato casacca ma, soprattutto, di essersi sentito parte della famiglia Savastano. Imperdonabile per chi, come Genny, ripudia ogni legame con il suo sangue. Non è un caso che il brutale omicidio avvenga proprio tramite quell’oggetto che esplicita il legame tra Gegè e i Savastano: l’orologio regalatogli da Pietro alla laurea.
La morte di Gegè segna la separazione della puntata in due blocchi: nella prima parte emerge in maniera netta l’illusione, nonchè l’arroganza, di Genny, convinto di poter mantenere tutto sotto il proprio controllo; violenza e arroganza che gli viene restituita in un sol colpo nel finale, per mano di Don Avitabile. Di grande intensità il monologo di quest’ultimo, anticipato da una citazione non proprio riuscitissima a Pulp Fiction (“secondo te Avitabile è una femmina? E perchè t’o vuliv chi**à ?“).
Ancora una volta Gomorra si sofferma sulla precarietà del potere, che passa di mano in mano con una facilità disarmante. Lo stesso Genny, come Gegè o Malamore, non è altro che una mera pedina all’interno dello scacchiere. A lui, tuttavia, è stata concessa l’opportunità di ricominciare da zero, a Secondigliano. E la sua rinascita dovrà passare, necessariamente, da Ciro. Ricordando le parole, vane all’epoca, pronunciate da quest’ultimo dopo il ritorno di Genny dall’Honduras, vien da pensare che sì, adesso ci siamo: chist è ‘o mument loro.