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Halston, la Recensione – L’ennesimo ritratto fittizio e stereotipato di un grande stilista

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Halston è il titolo della nuova miniserie Netflix che, prendendo le mosse dalla biografia Simply Halston di Steven Gaines, desiderava consegnare al pubblico – specialmente europeo – l’immagine e la storia di uno dei grandi stilisti americani, che contribuirono a ridimensionare la moda statunitense a partire dagli anni ‘60. Nonostante le buone premesse e le nobili intenzioni, esplicitate da Ryan Murphy, Daniel Minahan e Ewan McGregor, nel voler rendere giustizia a questa figura artistica, la miniserie si è rivelata un totale fallimento. Se infatti desiderate conoscere il mondo della moda statunitense e approfondire la vita dello stilista Halston, allora questo prodotto Netflix non fa per voi.

I cinque episodi che compongono la miniserie si dimenticano di portare in scena la creatività e il genio di un uomo che con i suoi tessuti minimalisti, realizzati in cashmere e ultrasuede, influenzò lo stile delle discoteche degli anni ‘70. Produrre questa miniserie significava far leva su una certezza: l’interesse del pubblico nei confronti del fascino misterioso che si cela nell’ideazione e nella creazione degli abiti. La realtà della moda, così luminosa, mondana e distante, da decenni stuzzica gli spettatori che desiderano conoscerne le dinamiche interne e la mente degli stilisti che la abitano. Eppure, troppo spesso, si è optato per una rappresentazione standard dei grandi artisti, la cui eccentricità nell’immaginario collettivo è diventata uno stereotipo creato proprio dal mondo del cinema e della tv.

Halston

Registi, sceneggiatori e attori per decenni hanno costruito una rappresentazione che più che un’interpretazione ricorda invece una parodia degli stilisti. Esso sono tutti dannati, incompresi e talvolta con la puzza sotto il naso, fatta eccezione per pochi altri a cui invece sono state cucite addosso gentilezza e bontà eccessive da farli sembrare martiri o vittime.

Nella miniserie, Halston è sia un creatore eccentrico con la puzza sotto il naso, sia una vittima delle multinazionali e della politica.

In un modo o nell’altro le creazioni che lo resero famoso fanno solo da sfondo a una narrazione che risulta invece compressa e insistita solo su i momenti più degradanti della vita dello stilista. L’alcool, le droghe, le feste e la vita mondana diventano infatti protagoniste di un ritratto grottesco, superficiale e stereotipato a cui spesso sono soggetti i volti noti del mondo della moda.

Il primo episodio è forse l’unico interessante perché ci rende testimoni di un racconto dolce e coraggioso. Il protagonista è ancora un bambino, che scopre la sua passione per la moda confezionando cappelli per sua madre, una donna costretta in un matrimonio difficile con un uomo violento. Ravvisiamo in questi primi momenti delle situazioni comuni, purtroppo, specialmente per l’epoca, e questo non fa altro che accrescere la nostra curiosità poiché ci chiediamo in che modo Halston è riuscito a fuggire da quell’ambiente? In che modo è arrivato a New York? Sono domande che non avranno risposta perché la sceneggiatura decide con prepotenza di narrare in breve solo alcuni eventi della vita di Halston, forse i più cruciali ma che, ammassati uno dopo l’altro, impediscono di comprendere davvero lo stilista e l’uomo nascosto dietro il ruolo sociale rivestito.

I personaggi, anche quelli che nella realtà ebbero un ruolo importante nella vita di Halston, appaiono e scompaiono in modo anonimo e sempre con grande rapidità. Altri invece sono stati del tutto omessi o relegati ad apparizioni di pochi secondi facilmente dimenticabili.

La confusione non caratterizza solo i personaggi ma la narrazione stessa degli eventi. Essa è lineare, noiosa, ma proprio quando ci accorgiamo di questo difetto la linearità cede il passo al flashback che purtroppo né migliora i tempi narrativi e né rende le vicende interessanti. Al contrario, rallenta paradossalmente il tutto esplicitando l’inutilità dell’espediente narrativo adoperato.

Ewan McGregor sembra abbia voluto scalfire solo la superficie di questa personalità.

Che sia stata colpa dei tempi brevi? Della sceneggiatura? Forse. È tuttavia evidente che l’interpretazione di McGregor non possa essere inserita tra le migliori della sua carriera. Il suo Halston non emoziona, al contrario infastidisce e irrita. È difficile empatizzare con il protagonista e comprendere almeno in parte il suo percorso e la maschera da superstar che a un certo punto del racconto decide di vestire. Restiamo spiazzati, è vero, da un cambiamento che pensavamo sarebbe stato spiegato e mostrato in modo più coerente nella storia. Inoltre le emozioni che avvertiamo in seguito non sono neanche legate a pensieri controversi perché il protagonista si rivela piatto e prevedibile. Alla fine della storia sembra di aver guardato una brutta copia di Pose, come se il regista avesse voluto emulare il produttore della miniserie, Ryan Murphy, realizzando un disastro.

Halston

Ciò che deriva dalla visione dei cinque episodi è un profondo senso noia e di esasperazione per il fatto che ancora una volta – come è accaduto persino con la miniserie italiana Made in Italy – la moda e lo stilista in questione siano stati raccontanti come cittadini di un mondo lontano e inconoscibile e i cui problemi, per quanto comuni, appaiono distanti, snob e negativamente tragicomici. Per questo, con sconforto, la miniserie non supera la sufficienza e ottiene un 5/10.

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