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Hausen 1×07/1×08 – Dare un nome alle cose

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Il cerchio di Hausen si è concluso. Le ultime due puntate della serie tv tedesca distribuita in Italia dal network Sky sul canale Sky Atlantic ha chiuso i battenti dopo 8 episodi che ci hanno intimidito attraverso sensazioni stranianti e angosciose. Iniziamo dalla fine: Hausen, nel complesso, si è rivelata una ottima produzione. La miniserie nata dalla mente del funambolico Till Kleinert è stata in grado di mandare messaggi ben precisi attraverso l’escamotage dell’horror psicologico. D’altra parte, Hausen segue il filone delle più recenti produzioni tedesche come Babylon Berlin e Dark. Tutte queste serie teutoniche sono caratterizzate da una linearità emotiva che le rende semplici, ma che allo stesso tempo crea nello spettatore una instabilità interiore causata dalla totale ermeticità del plot. E questo discorso vale anche per Hausen. La produzione horror infatti ha un encefalogramma regolare, senza picchi né cadute, un climax che potremmo definire ossimoricamente lineare, né ascendente né discendente.

In questi 8 episodi Hausen è riuscita a intrattenerci e allo stesso tempo prenderci a pugni lo stomaco. Una serie che a livello tecnico è ben realizzata, gli effetti speciali e la fotografia sono tipicamente di scuola tedesca (la stessa cosa succede in Dark). Tutto risulta scarno e asettico, ma paradossalmente questa semplicità artistica attrae lo spettatore e lo immerge nel dramma in maniera per certi versi empirica. Questo è uno dei grandi meriti di Hausen, che come vi abbiamo raccontato più volte non è un capolavoro, ma si lascia decisamente guardare. Le avventure di Juri, suo padre e di tutto il condominio sono lo specchio di una società cronologicamente distante da noi, ma drammaticamente attuale. La produzione tedesca non lascia spazio all’interpretazione, non ha significati reconditi. C’è solo una grande verità dal finale di Hausen: l’indifferenza è il male che, come una pandemia, ha invaso e avvelenato il condominio e il mondo intero.

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Il finale di Hausen è una corsa verso l’ignoto.

Sì, perché se dobbiamo trovare un difetto a questa serie è che prepara la tavola con tutti gli elementi e poi accelera incredibilmente negli ultimi due episodi. Questo da una parte è un merito, visto che riesce a tenere in tensione lo spettatore per sei puntate, portandolo a desiderare una svolta per poi liberare questa tensione nel finale di serie. Dall’altra parte, purtroppo, si tratta anche di un difetto, perché la tensione si smorza tutto di un tratto e chi sta sul divano viene come investito da una sensazione di vuoto cosmico. Il picco di Hausen viene toccato nel momento in cui Jaschek affida suo figlio Juri al losco individuo dei servizi sociali, la camminata nel corridoio in cui avviene la trasformazione del tizio in niente di meno che Kater, è il punto più alto dell’iceberg emotivo della serie tv tedesca. Da quel momento in poi, lo spettatore è consapevole di quello che lo aspetta.

Gli ultimi venti minuti dell’episodio 7 e l’ora finale dell’ottavo sono una strada in discesa. Sappiamo benissimo che sarà Kater a precipitare dalla cima del palazzo, come sappiamo benissimo che il villain dell’ultima puntata sarà il padre di Juri. Allo stesso modo, intendiamo prima del tempo che l’uomo, grazie all’aiuto dello stesso figlio, riuscirà a far uscire l’influenza della creatura dal suo corpo solo nel momento in cui si libererà del fardello che gli appesantisce l’anima: il senso di colpa per il suicidio di sua moglie. Hausen in questo risulta essere elementare, forse fin troppo, e la cronologia degli eventi rischia di essere scontata, ma forse è proprio questo che la rende una buona serie tv.

Non sono le vicende a rendere interessante la storia, quanto il messaggio che le vicende stesse voglio mandare. Un paradosso seriale che rende lo spettatore appagato durante la visione di questi ultimi due episodi. Per questo motivo, più che analizzare ciò che succede in questo finale, proveremo a raccontarvi la morale esopiana che la produzione tenta di mandarci.

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Quel mostro chiamato indifferenza.

Questo, come dicevamo, è il messaggio principale. La serie tv è un grande cerchio che inizia e si conclude allo stesso modo: con un bambino. L’unica grande differenza è il fatto che nel primo episodio il neonato, nonostante abbia ormai una decina di mesi, non ha ancora un nome. Al contrario, nell’ultima, viene dato un nome alla piccola creatura, Tony. Questo vuol dire combattere l’indifferenza: dare un nome alle cose e alle persone. Questo è lo scherzo oscuro che ci hanno fatto per otto puntate i creatori di Hausen attraverso i loro personaggi. Ci hanno messo la soluzione davanti al naso e noi come sciocchi, mentre loro indicavano la luna, guardavamo il dito indice. Till Kleinert ha scherzato con noi facendoci capire quanto siamo ciechi davanti all’evidenza.

Un gioco di prestigio con cui lo sceneggiatore ci ha abbindolato.

Se nel precedente articolo ci è venuto in aiuto un film incredibile come Non è un paese per vecchio, in questo caso, per spiegarvi meglio quello che ha fatto Kleinert, ci appelliamo a un altro mostro sacro del grande schermo: Christopher Nolan insieme al suo The Prestige. “Ogni numero di magia è composto da tre parti o atti. La prima parte è chiamata la promessa. L’illusionista vi mostra qualcosa di ordinario: un mazzo di carte, un uccellino o un uomo. Vi mostra questo oggetto. Magari vi chiede di ispezionarlo, di controllare che sia davvero reale, ma ovviamente è probabile che non lo sia. Il secondo atto è chiamato la svolta. L’illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario. Ora voi state cercando il segreto, ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati. Ma ancora non applaudite. Perché far sparire qualcosa non è sufficiente, bisogna anche farla riapparire. Ecco perché ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che chiamiamo il prestigio”.

Questo è quello che fa con noi Till Kleinert, ci racconta fin da subito che il male del condominio e del mondo intero è l’indifferenza, ma noi siamo ciechi come gli spettatori del mago. Rimaniamo stupiti della sparizione del bambino e ancora più sbalorditi della sua ricomparsa, senza renderci conto che il trucco era semplice: dare un nome alle cose e combattere l’indifferenza.

La storia di Hausen è una storia di piccoli gesti.

Come quello che non ha mai ricevuto il piccolo Dennis, colui che si è trasformato successivamente nel barbone Kater. Tutti gli abitanti si sono disinteressati al primo bambino del condominio, tutti sono stati assenti come sua madre, e l’innocente si è trasformato in carnefice dei suoi carnefici. Piccoli gesti come un pianto liberatorio che fa rinsavire Jasheck o lo spalmare un unguento, da parte di Juri, sul volto tumefatto di un uomo che qualche istante dopo si toglierà la vita. Gesti di poco conto, ma che fanno la differenza e combattono l’indifferenza. Ci sono poi gesti grandi e grandi sacrifici, come quello del giovane Juri, che per salvare il condominio e i suoi abitanti compie il sacrificio estremo, quello di entrare nell’occhio della creatura che come una muffa infestante, permea tutto il palazzo.

Non sapremo mai cosa succederà a Juri, gli ultimi frame ce lo fanno vedere immerso nello spazio interplanetario, avvolto da calma e silenzio, mentre precipita verso un sole. Non sapremo mei se il ragazzo sia morto oppure sia in un universo parallelo. Quello che però sappiamo e che abbiamo imparato dopo avere visto Hausen è che le emozioni si nutrono di emozioni. Se non ne proviamo, rischiamo di trasformarci in quei mostri da cui fuggiamo, rischiamo di diventare il nemico di noi stessi.

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