Questa recensione contiene spoiler sulla 6×02 di Homeland!!
You saved me? Yes
Mi è sembrato opportuno iniziare con la frase che secondo me ha aperto e chiuso, ma possiamo anche dire semplicemente socchiuso, l’episodio.
La sentiamo alla fine della sigla, ma soprattutto, la sentiamo nella puntata, nella conversazione tra Carrie e Peter. Quasi una confessione, una rivelazione che finalmente viene fatta e viene compresa.
Ma cominciamo dall’inizio…
Torna la sigla, inedita, nuova, anche e soprattutto nei protagonisti. Non abbiamo più segni tribali, confusionari labirinti, adesso in primo piano c’è Carrie ed il presente dell’America. Forse ad indicare che la realtà di questa sesta stagione è più concreta?
Immagino che lo scopriremo.
Come non mai, in questi primi due episodi cinquanta minuti sembrano essere veramente troppo pochi, quando pensi che la puntata sia appena iniziata in realtà è arrivata ai titoli di coda. Si fa fatica a credere che l’episodio sia durato così poco.
Eppure il tempo è quello cronologico e la nostra sensazione sarà forse solo uno dei tanti trucchi di Alex Gansa.
La trama fila liscia ed il moderato ed apparente equilibrio che ha pervaso questi primi episodi sembra essere solo un preludio a qualcosa di grande, qualcosa che probabilmente ci riporterà indietro ai tempi in cui Carrie operava direttamente sul campo. E questa cosa non può che farci felici.
Carrie, Peter e la tazza di caffè
Nel precedente episodio questa era un’evidente nota dolente, pensavamo che sarebbe stato difficile per Quinn tornare nel mondo dei vivi, ma così è veramente straziante.
Ma parliamo del livello giusto di disperazione, quello stesso livello di disperazione che in realtà, è insito in tutti i protagonisti e che rappresenta un po’ il marchio di fabbrica di Homeland.
Peter deve tornare ad avere la sua felicità, cosa che evidentemente adesso non ha, come fa notare Max. Per farlo ha bisogno di credere di potersi salvare da solo, di potercela fare, nonostante tutto e tutti. È arrabbiato con Carrie, ma soltanto perché deve credere di non aver bisogno di lei.
È facile comprenderlo se solo provassimo a metterci nei suoi panni: era, ed è tuttora, un soldato. Un mercenario che è sempre stato solo e che si è sempre salvato la vita da solo. E per lui è più ‘semplice’, ma forse solo meno doloroso e imbarazzante, non avere a fianco persone che conoscono la sua storia, che non hanno mai visto la sua debolezza e che improvvisamente si ritrovano a dover fare i conti con un Peter debole e autodistruttivo. Carrie è l’unica persona che conosce Quinn, ed è l’unica persona che secondo Quinn non dovrebbe essere testimone del suo crollo, e il lancio della tazza del caffè lo testimonia.
Eppure c’è, Carrie è lì e lo porta a casa sua, dove vive con Franny, in fondo sa di potersi fidare di lui, ma cosa più importante, sa quanto Peter ha bisogno di lei.
A questo punto Carrie un bel 9 lo merita. Con Peter siamo sul 7 dato sulla fiducia (influenzato anche da quel ‘perché -mi hai salvato-?’ alla fine, la reazione di Carrie infatti, è quella di tutti noi!)
La trama nella trama, Sekou, Saad e l’agente Conlin
Il rischio maggiore per una Serie Tv che mette in scena temi politici e contemporanei è la distorsione e trasformazione dei fatti reali affinché si crei una sorta di giustificazione dell’utilizzo di questi aspetti.
Dopo sei stagioni possiamo dire che Homeland è effettivamente una spanna sopra tutti. Anche quest’anno la trama gira attorno a qualcosa di reale, come l’ISIS, o come il primo Presidente donna della storia degli Stati Uniti (anche se nella realtà contemporanea è chiaro che questo non sia avvenuto, si ha comunque la consapevolezza che questo evento sarebbe potuto essere realtà).
La trattazione della storia è il pezzo forte di Homeland. Abbiamo Sekou, che nel primo episodio sembrava un personaggio ancora ambiguo, ma che adesso pian piano si sta rivelando, il suo amico Saad che si scopre essere un informatore dell’FBI che ha incastrato proprio Sekou sotto l’ordine dell’agente Conlin, e diciamo che le cose losche non sono solo opera della CIA, che però non se ne sta con le mani in mano. Il buon vecchio Dar Adal, infatti, riceve informazioni dagli israeliani.
Detto ciò un paio di domande sorgono spontanee:
chi è Conlin, oltre ad essere un razzista arrivista? Cosa sta tramando Dar Adal alle spalle di Saul? Ma soprattutto: dove cavolo è T-Bag?!
Saul accusa Carrie che gli risponde picche (almeno, prima di accusarla, portala a cena!)
L’attesa dell’incontro tra Carrie e Saul è durata solo un episodio, ma ciò che si sono detti allo studio legale ha lasciato un po’ di amaro in bocca. Eravamo già pronti ad abituarci ad una vita equilibrata e ‘normale’, con una Carrie più dedita alla famiglia e a Quinn (anche se ci aspettavamo e speravamo comunque che ci fosse un colpo di scena che distruggesse tutte queste nostre aspettative), ed invece Carrie, ancora una volta, ha il controllo su tutto, o quasi, considerato lo stato in cui verte Peter. Non è abituata ad una vita tranquilla, lontana dall’azione, forse per un po’ ha creduto che lo fosse realmente, ma quel tipo di visione globale non fa per lei, non la rende quella che è.
A conferma di ciò abbiamo l’incontro con Saul: fa finta di nulla, mente e lo fa in maniera magistrale, sfoderando (per la gioia di tutti noi fan ossessionati) il labbro tremolante, presagio di innumerevoli pianti passati.
Un paio di scene dopo la vediamo confermare tutti i dubbi e le preoccupazioni che Saul e Dar Adal hanno nei suoi confronti, Carrie è davvero la consigliera della Presidente eletta (che è stata costretta a fare un lungo viaggio da House of Cards a Homeland per diventare finalmente Presidente).
Carrie tiene a Saul, lo abbiamo visto con il passare delle stagioni. Il loro rapporto ha avuto alti e bassi, e sebbene non abbiano più modo (per ora) di vedersi come erano abituati a fare nel passato, hanno qualcosa di veramente profondo e stabile nei loro sguardi, qualcosa che non può essere disintegrato.
Appuntamento alla prossima settimana… e nel frattempo, continuiamo a sperare di rivederli al più presto così…